1620 - 1627 Giorgio Giustinian
Relazione
L’ampiezza dell’Imperio Otthomano si stende et spiega in tutte le tre parti della terra, nelle quali possiede trentacinque regni, o provintie, sotto nome di beglierbegati, aquistati tutti non per diritto d’heredità ma per forza della spada, su la quale fondano gl’Otthomani ogni loro ragione.
Abbraccia tutto questo vasto et amplissimo Imperio, se si vuol creder alla computation de cosmografi, più di sedeci mille miglia con una linea che, cominciando dai nostri confini di Dalmatia, camina per l’Albania, Morea et Grecia sino a Costantinopoli et, circondando l’uno et l’altro lito del Mar Maggiore, ritorna allo stretto della medesima città, et per la Caramania et Soria passa nell’Egitto et nelle marine d’Africa sino allo Stretto di Gibilterra, di donde torna a dietro con un’altra linea per li suoi confini terrestri si giunge sin al Mare Oceano Meridional, et dal Mar Rosso si va a ritrovar l’Euffrate, et di là il Tigris nel Sino Persico, et giunto al Tanai si ritorna nell’Europpa, et di qua et di là dal Danubbio molto allargandosi si riduce in Ongaria terminando finalmente nella Crovatia, verso li nostri confini del Friuli da quali, sino a quelli di Persia, ch’è la maggior sua lunghezza, si contano tre mille miglia, et dalli ultimi confini dell’Egitto al Tanai, nella sua maggior larghezza, [***] confinando in così lungo tratto di paese con Persiani, Africani, Georgiani, Tartari, Polacchi, Ongari, Alemanni e con Vostra Serenità.
Imperio veramente per l’ampiezza et estension del paese, per la loro continuatione et unità, per la moltitudine et varietà de popoli, per la fertilità et copia di tutte le cose, grande et vastissimo, ma non meno per la commodità di tanti mari et fiumi principali che lo rendono communicabile a sé stesso et a tutti gl’altri.
Consistevan già le forze di tanto Imperio in uno determinato numero di militie, così da piedi come da cavallo, mantenute del continuo dal Gran Signore. Quelle da piedi sono de giannizzeri quali, raccolti da piccioli fanciuli dalle decime de Christiani della Grecia, condotti ogni tre anni a Costantinopoli et fatti mussulmani venivano posti nei serragli dove, educati sono con sommo rigor e disciplina nelle fatiche e nei disagi, riuscivano soldati bravi et indrizati obedientissimi et fedelissimi al prencipe, il quale solo riconoscevano per padre e signore. Questi a tempo di sultan Suleiman non solevano passare dodeci mille, et hoggidì arrivano a sessanta mille, quanto cresciuti di numero altretanto diminuiti di disciplina et di valor perché dove all’hora raccolti dalle dette decime portavano dalla nascita generosi semi che, coltivati con la disciplina, maturavano in un’ottima riuscita, et col moderato numero formavano un perfetto temperamento all’ampliatione et conservatione dell’Imperio, così a poco a poco, imbastardita prima la razza per i figli de Turchi, che per favor erano admessi nel detto ordine, poi a tempo mio del tutto guasta et corrotta per un infinito numero di gente adulta et vilissima dall’avaritia de ministri per pochi denari assunta nella detta militia, non solo ella non corrisponde hoggidì in parte alcuna all’antica sua lode et riputatione nell’imprese militari, ma datasi del tutto all’agi et alle commodità, et anteponendo l’otio alla fatica et al servitio del Gran Signore, tralasciano di condursi alla guerra, o vi fanno la cattiva riuscita, che in quelle di Polonia et di Babilonia a mio tempo si è veduto, in modo che non servendo ad altro la lor moltitudine che a distruttione dell’erario del prencipe et a sollevatione sin contro la sua vita propria; come per il passato s’è attribuito alla lor virtù la grandezza dell’Imperio, così dalla presente loro corruttella ognun vede la declinatione et pronostica la rovina.
La institutione di questa militia de giannizzeri s’assomiglia assai all’antiche legioni de Romani. È compartita sotto cento sessantun capi, subordinati tutti all’agà, supremo tra loro et di grande auttorità. Habita tuttavia una parte di essa in Costantinopoli unitamente in diverse camerate, con molta economia et ordine, privileggiati nelle cose necessarie al vito di molti vantaggi; la lor paga è dalli tre fino li dieci aspri al giorno, et un aspro fa una gazetta, et ciascun anno una veste di panno, et nella guerra a doi cecchini per testa; vengono per un anno intiero spesati dai lor capi, et lo possono fare per altre utilità che ricevono dalle spogli et lasci de morti et dalle contributioni di quelli che restano da loro essentati dalla guerra. Le lor armi sono l’archibugio et la scemitarra; proffesano nelli esserciti, tocca ad essi la custodia et diffesa della persona reale; per l’adietro sostentorno degnamente con la fede e valor tal prerogativa, hora l’hanno bruttamente macchiata col suo proprio sangue.
In classe inferiore questa di giannizzeri, ma pur nella militia terrestre, sono li azamoglani, cavati anch’essi dalle dette decime et educati nelli serragli come gli altri, applicati poi a servitii più bassi nelli vascelli et giardini regii delle sultane et dei bassà, sotto il bustangi bassì lor capo. Sono al numero di sedeci mille, et servono anch’essi nell’occasione in guerra, armati come li giannizzeri, con quali passano una natural mala volontà, et con paga inferior a loro.
Tra le militie a piedi si numerano anco cinque mille armarioli et sei mille bombardieri, del continuo stipendiati dal re, armati ma non già educati con la disciplina degl’altri.
Tra le medesime è descritto per la Grecia un numero grande di guastatori et dieci mille asappi: gente vile, della qual si servono per piantar padiglioni et altri bassi servitii delli esserciti.
La militia a cavallo consiste in doi ordini si sphai, gl’uni di paga et gl’altri di timaro. Li primi già solevano esser disdotto mille, et a mio tempo per la medesima corruttela arrivorno a trenta mille, caduti anch’essi negl’istessi e maggiori disordini dei giannizzeri, al valor dei quali, come eran soliti di emular nel servitio del re, così hoggidì li avanzano di disobedienza et di contumacia. Son divisi in sei squadre, sotto sei capi; ricevono quotidiano stipendio dal re, dalli dodici sino li quaranta aspri il giorno, pagatogli ogni tre mesi, come ai giannizzeri; risiedono alla Porta per il più, ma non con quella unione di camerate, né con quelli vantaggi e prerogative che hanno quei; alla guerra vanno armati di arco, zagaglia, scimitarra e mazza ferrata, in luoco della quale alcuni pochi portano la pistola, et alcuni per arma di dosso il zacco et la celata. Non hanno capo proprio supremo, come li giannizzeri, ma immediate dipendono dal bassà generale.
Li sphai di timaro vengono così chiamati perché in luoco di paghe hanno il loro stipendio assignato sopra terreni, con obbligo di comparir et servir nella guerra con tanto numero de soldati a cavallo quanto importa la rendita dei lor timari, tansati in modo che per ogni cinque mille aspri di rendita sono obligati condur un huomo a cavallo.
Questi terreni, divisi et sparsi in tutte le parti dell’Imperio, furono acquistati dagl’Otthomani nelle loro vittorie quali distruttori della nobiltà et propagatori della militia, hanno in luoco di stipendio assignato alli soldati in vita loro il frutto de detti terreni con l’obbligo predetto, et con importantissimo sollievo del Casnà regio, che non potria resister al mantenimento di tanto numerosa militia.
È molto difficile saper il certo del vero numero di questi timari, et conseguentemente delle militie fondate sopra di essi, perché molti vengono posseduti dalle sultane e dai grandi, esenti dal predetto obligo, et molti in Asia inculti per le spopolationi de paesi, et ai confini di Persia distrutti dalle guerre; tuttavia, per quanto communemente si tiene, dai timarri di Europpa si cavano ottanta mille cavalli, da quelli d’Asia sessanta mille, dall’Egitto et Africa dodeci mille.
Sono li timariotti in ogni parte dell’Imperio compartiti et
subordinati a tresento quaranta sanzacchi, et questi a trentaquattro begliebei, et tutti ai due supremi d’Anatolia et di Grecia, a quali nell’occasione di guerra vien spedito ordine dal re di farli mover et ridur all’insegna, il che veniva già con maravigliosa prontezza et facilità esseguito; ma hoggidì, sebene le militie de timari non sono ancora guaste dalle corruttele come quelle della Porta, et vengono contenute in officio dal timor d’esserne private, tuttavia mancando anco in essi la discilina et obedienza di prima, non si movono con quella prontezza et facilità che fu sempre mai stimata uno dei più saldi fondamenti della potenza di quell’Imperio. Oltre il beneficio che sente il re dal mantenimento di tanto numero di cavalleria senza alcuna sua spesa, mantenendosi ella nella guerra a suo proprio soldo, et essendo in essa il suo principal nervo, ne riceve nella pace un altro importantissimo che, sparsi li timari in ogni parte del suo Imperio, et particolarmente a confini, viene a restar diffeso et sicuro, così dalle sollevationi interne de sudditi christiani, mori, arabi, che per la diversità della religione et per le intollerbili oppressioni sarian pronti a ribellarsi, come dalle invasioni dei nemici esterni, per l’obligo de timariotti di diffender li confini, tanto più potenti in loro quanto con essi vengono a conservar li suoi beni proprii, et queste sono appresso Turchi le vere piazze et fortezze per la sicurezza del loro Imperio, onde nasce che in tanta ampiezza ne hanno pochissime.
È comune opinione che il trattenimento delle dette militie di timarro alla tansa, che furon sin dall’hora valutate, importi più di quindici milliona d’oro all’anno, et che se si devenisse al presente a un nuovo estimo si raddoppierebbe quasi la detta somma, et per conseguenza il numero d’esse militie; ma chi ardiria, in tanta corruttella et predominio d’esse, aplicarvi il pensiero.
Oltre la predetta cavalleria di sphai di paga et di timaro, militano anco a cavallo nell’occasioni di guerra doi mille chiaussi, altretanti capigì et cinquecento mutaferagà, cioè lancie spezzate, che assistono sempre alla persona real, et tutti questi vengono anco in tempo di pace trattenuti col soldo del Gran Signore; et tutto questo gran numero di cavalleria resta nell’occasioni non poco accresciuto da una considerabile moltitudine de venturieri de ministri et ufficiali della Porta et dei bassà che seguitano il campo et procurano di segnalarsi per acquistar merito et grado, onde vengono li esserciti turcheschi così numerosi che quello che condusse a mio tempo sultan Osman contra Polacchi era maggiore di seicento mille, da che procedè la mala riuscita di quella impresa.
Queste sono le forze, così da piedi come da cavallo che, accompagnate da una immensa copia di tutti li apparati necessarii, resero già non solo numerosi ma formidabili li esserciti otthomani.
Abbondano di bella et sforzosa artiglieria, acquistata nelle tante loro passate vittorie, et che per giornata van fabricando. Il ferro et rame gli viene sumministrato da proprii paesi; l’aciale et il stagno di Christianità, con non picciola nota degli Inglesi; moschetti, arcobugi et arme da fuoco li hanno perfettissimi di Barberia et dalla istessa città di Costantinopoli; scimitarre, spade et altre da taglio ne fabrican da per tutto, ma in Damasco e Babilonia le migliori et di tempra esquisita; archi et frezze da Gallipoli et da pertutto, come anco la polvere, ma dal Cairo la più perfetta.
Da Arabia et Egitto cavano cavalli eccellentissimi, et da tutto il paese quanti ne vogliono, per la lena et spirito più che per la grandezza et forze generose e bravi, et perciò più atti al corso che all’urto; muli et gambelli dall’Asia, dove hanno le razze in tanta copia che parono ivi raccolte dal resto del mondo.
Io, con occasione delle guerre di Polonia et di Babilonia seguite a mio tempo, hebbi commodità di veder et osservar la mossa di quelli esserciti, in un de quali andò sultan Osman in persona con seicento mille persone et con apparato veramente stupendo, et nondimeno vi fece così mala prova che per l’oppositioni dell’essercito polacco, minor di cento mille, non potè mai spuntar le trinzere di Cotin; et finalmente, consumato dalla sua propria moltitudine, convenne abbandonar l’impresa. Dalla qual cosa, et dalla medesima mala riuscita di quella di Babilonia parmi che a prò di questo eccellentissimo Senato, che per così lungo tratto di confini con Turchi ha continuamente da sospettar della loro potenza, si possino dedur doi verissime conclusioni: l’una che non sempre dalla numerosità delle forze nascono le vittorie, ma ben spesso le confusioni et le rovine; l’altra che al presente le otthomane non hanno da esser tanto temute quanto per l’adietro, mostrando l’esperienza molto chiaro che, datesi alle commodità et al lusso, et grandemente declinati dall’antica devotione et obedienza verso la casa otthomana, non ritengono più quasi parte alcuna di quella disciplina et valor, et dirò anco del favor della fortuna, col mezo della quale fecero già tanti e sì gloriosi acquisti, né producendo più la casa otthomana di quei prencipi che con gran virtù li propagarono, da che era meravigliosa la devotion delle militie verso di essi, con emulatione di quelli di liberalità, et in queste di obedienza, convertita hoggidì negl’uni di dapocagine, et nell’altre in una estrema contumacia et licenza.
Ho ditto delle forze terrestri del Signor Turco; hora parlerò delle maritime, la notitia delle quali è la più propria et necessaria a questo eccellentissimo Senato di tutte l’altre. Non è alcun dubbio che la professione del mare si trova al presente appresso i Turchi molto declinata, potendosi comprenderlo dalla debolezza delle armate che d’alcuni anni in qua escono in mare; ma dall’altro canto non procedendo tale declinatione da mancamento delle cose necessarie, ma solo da mal governo, non si deve fondar molto sopra di essa, ma più tosto da questo eccellentissimo Senato raddoppiarsi studio et diligenza per accrescer tanto più nelle provvisioni maritime quanto essi van declinando, per poter, quando piacesse a Dio aprir l’occasione, usarle in servitio della Christianità et suo proprio, o per esser parati a resistere quando tornassero Turchi a ristorarle, il che non gli saria (a creder mio) con qualche commodità di tempo molto difficile per l’abbondanza che hanno nei proprii paesi di tutte le cose necessarie.
Prima, arsenali non gli mancano, havendone uno in Costantinopoli di 144 volti, molti de quali, perché andavano in rovina, ha fatto ultimamente il re, a spese dei bassà et altri grandi, restorarli, assignandovi a ciascuno la sua parte, et per l’emulatione tra loro in cosa apparente et esposta alla vista di Sua Maestà, l’opera è ridotta a buon segno, et pare habbi medesimamente pensiero di fare la stessa assegnatione per la fabrica di galee sotto di essi, con la quale verria l’Arsenale molto presto a restar tutto fornito di galee senza sua spesa. Un altro ne hanno alle Camarre di 19 volti; sette ne sono nel Mar Negro; due nel Golfo di Nicomidia et altri in alcune isole dell’Arcipelago, li quali, se ben discoperti, prestano però per la vicinità loro al mare da una parte et ai boschi dall’altra commodità grande alla fabrica di buon numero di galee, legnami per l’ampiezza et immensità de boschi in tutti li predetti luochi, ma particolarmente nelle rive d’Asia sul Mar Maggiore ve n’hanno così gran copia che potriano coprirlo et tanta commodità di tagliarli et condurli, per gran numero di villaggi esenti dall’altre et sottoposti a questa sola angaria che si può dir i boschi caminar all’opra da sé stessi. Ma o sia per la copia, naturalmente nemica dell’industria, o dalla loro imperita, non usando nel tagliarli quell’avvertenze di tempi et d’altro che da nostri s’osserva, riescono imperfetti all’opera, et in breve tempo fanno li arsilii molte fessure, s’aprono et si scavezzano, et il terzo anno sono fatti inutili, diffetto che nasc’anco dall’avaritia dei rais molti dei quali, pigliando con cinquecento cecchini et certa quantità di ferramenta che gli dà il re, l’obligo di fabricar le galee, scarsegiano quanto più possono la spesa, et il lavoro riesce debole; et quelle anco fabricate per conto del re soggiacciono per l’avaritia de ministri all’istesso diffetto. Hanno copia grande di maestranze, particolarmente de Greci, migliori de Turchi in questa professione, et nelle urgenze si servono di quelli che, non obbligati al re, lavorano nelle proprie botteghe et vanno sopra li galeoni et caramussali, ai viaggi de quali in Costantinopoli si trovan buon numero, et con pochi aspri li costringono al lavoro.
Mancan de protti et periti al sesto delle galee, et si servono di rinegati quando ne possono haver; di qui nasce che elle non hanno il bon garbo et aria delle nostre: sono alte da puppa et da proda, et quasi lunate, che cagiona due inconvenienti: l’uno che i vogadori, convenendo tirar alto, sentono gran fatica nel dar la voga, et presto perdono la lena; l’altro che il tiro dell’artellaria, non potendo per l’eminenza ferir basso, passano per lo più i colpi per l’aria senza offesa, et sono all’incontro molto esposte a i tiri delle nemiche. Credono all’incontro ricever da ciò due beneficii: l’uno che le galee resistono maggiormente alle fortune, che nel Mar Nero sono molto impetuose, l’altro che le ciurme restano più coperte et sicure.
Doi mille calaffati vengono del continuo trattenuti nell’Arsenale di Costantinopoli al soldo del re, oltre gran numero che viaggiano con i caramussali, et servono all’occasioni. Hanno tutti li bastimenti per le galee dei propri paesi.
Il cordaggio dalla Tana, il canevo da Trebisonda, il ferro da Salonicchi, il sevo di Moldavia, il telame da Gallipoli, Smirne et Cipro, li biscotti da Negroponte, Volo et Santa Maura, li legumi et risi dall’Egitto, la pegola dal Dardanello, d’Asia et dalla Vallona.
De remi pare habbino qualche strettezza, più per ignoranza dei luochi d’onde cavarli che per mancamento; ma parte delle predette cose sumministrate dal Mar Nero vengono dalle continue incursion de Cosacchi disturbate, con non picciolo incommodo.
Per galeotti et remadori si servono di doi sorti di schiavi christiani, non solo del Gran Signore, bei et rais, ma d’altri particolari ancora che li affittano a Sua Maestà per 15 in 20 cecchini, oltre il biscotto, per un viaggio di mesi sei, da maggio a ottobre, che l’armata si trattiene fuori, rimanendovi la vernata le sole galee della guardia, che sono trentasei; l’altra sorte è d’huomini di buona voglia descritti nell’Asia, in numero di sessanta mille, per l’armar di trecento galee, la qual gravezza, imposta anco alla città di Pera, et ad alcune altre della Gretia, si chiama avaris, per la quale hora si riscuote tre cecchini per foco, applicati all’Arsenal et al stipendio dei remadori predetti.
Per il passato, quando Turchi solevano mandar fuori potente armata, si riscuoteva l’avaris in huomini effettivi, et non in denari, onde ne soprabundava gran copia, doppo che, o per la destruttione delle provintie dalla guerra o per avaritia de ministri, in luoco d’huomini si principiò a esiger denari, cominciò a sentirsi mancamento, il quale col tempo è andato crescendo, in modo che hoggidì la debolezza dell’armata si deve principalmente attribuir a questa causa, mentre il denaro dell’avaris convertito dai capitani bassà in proprio, o in altro uso, non hanno modo di proveder di vogadori all’armar di vinticinque o trenta galee che d’alcuni anni in qua sogliono uscir da Costantinopoli, et che unite con quelle delle guardie, formano la loro armata, tanto minore di quelle eran soliti. A questo s’aggiunge che da che li corsari di Barberia con tante prede di navi et vascelli christiani tirano a sé tutti li schiavi, li bagni del Gran Signore et degl’altri, che solevano esser pienissimi, hora restano esausti di schiavi franchi, che erano il nervo dei remiganti, valendo i Turchi et i Russi, de quali hora si vagliono al remo et al mare, molto poco.
Armano le loro galee d’huomini da spada et da comando. Li primi sono leventi, cioè soldati di ventura che toccano soldo, oltre quali si servono per rinforzo di buon numero di spahi de timari di Morea, Negroponte et altri luochi di marina, obbligati sessanta per galea et tanti di più che piace al capitano del mare, secondo il bisogno, et di giannizzeri ancora. Gl’huomini da comando li pigliano dall’Arsenal di Costantinopoli, nel quale il re mantiene del continuo pagati poco meno di mille soggetti con titolo di bei, cioè capitani, che portano fanali, et da tre mille rais, cioè sopra comiti, che in vacanza di galea propria servono nell’altre di comiti compagni, et altri simili carichi, et ve ne sono di boni et isperimentati.
Il comando dell’armata, dell’Arsenal, et di tutte le cose spettanti ad essa, risiede nel capitan bassà, a cui sono per suo stipendio assignati dal re buona parte dell’isole dell’Arcipelago, che importano ben d’ordinario cinquanta mille scudi l’anno, ma d’estrordinario, per presenti, estorsioni et avanie molto più; godeva anco il carazzo di Galata, che da sultan Acmet gli fu levato et assignato alla sua moschea. Ha il commando di tutte le riviere et coste maritime, delle quali, mentre è fuori con l’armata leva e conferisce i sanzaccati, et dispone come gli par. Per il passato essercitavano il carico con maggior et assoluta auttorità et indipendenza dal primo visir, ma solo dal re. Hora, per la provision del denaro et altre, convengono passar per le sue mani et dipender dalla sua volontà.
Esercita al presente la carica [***] delle conditioni del quale parlerò a suo luogo.
D’alcuni anni in qua non s’è veduta in mare armata turchesca maggiore di 60 in 70 galee in tutto, comprese le guardie. Nel tempo del mio bailaggio non è mai nel Bianco arrivata a tal numero, essendo ogn’anno stati costretti a mandarne nel Nero contra Cosacchi qualche parte, et in questi ultimi quasi tutta con l’istessa persona del capitan bassà, restando nel Bianco sole 15 o 20 galee sotto il bassà di Rhodi, con titolo di suo luogotenente. In sette anni del mio bailaggio non ho veduto mai uscir di Costantinopoli per il Mar Bianco armata maggiore di 24 galee, et queste anco molto deboli, sfornite d’huomini da remo et da spada, et di molti apprestamenti necessarii, le quali si vanno poi per l’isole dell’Arcipelago rinforzando, et particolarmente a Negroponte, che è come il magazeno dell’armata. Da che si può molto ben comprender quanto saria facile a un corpo di 25 o 30 buone et forbite galee christiane, le quali prima dell’uscita delle turchesche scoressero l’Arcipelago, et si lasciassero veder in bocca dei Dardanelli, tener dentro di essi la predetta armata rinchiusa et sequestrata, et impedirgli d’unirsi con le guardie et tutte le commodità he è solita cavar dall’Arcipelago, appropriandole a sé stesse con doppio proffitto per l’inclinatione de gl’isolani al nome christiano et avversione da Turchi, oltre l’impedimento alla navigazione di Mar Bianco per Costantinopoli, et dal Cairo in particolar, dalla quale quella popolatissima città riceve gran parte del suo alimento. Cosa che molto ben conosciuta dall’armate spagnole che scorrono l’Arcipelago, gli fece più d’una volta applicar l’animo alla costruttion d’un forte in alcuna di quell’isole, et particolarmente nel porto di Milo, capace et sicuro, con l’opportunità del quale, rendendosi con un buon corpo di galee padroni dell’Arcipelago, apporterian alle cose de Turchi, et a quelle della Serenità Vostra, ancora molte gelosie et molestie. Ma chiara cosa è che quando le condition de tempi et delle cose che lo ricercassero, a nissun altro più che alla Serenità Vostra medesima potria riuscir l’effetto di sì fatto disegno per la commodità di spalle et di retirata nel Regno di Candia, et per l’inclinatione dell’isolani dell’Arcipelago, molto maggior a questa Serenissima Repubblica ch’a gli altri.
Hora passo all’entrate, le quali sono di due sorti: ordinarie et estraordinarie. Le prime, a creder mio, per quanto ho potuto saper da chi maneggia li libri dove sono descritte, ascendono a sei milliona di cecchini, et si cavano da quattro capi: da carazzi, che è una gravezza di doi cecchini per testa che paga ogn’uno non mussulmano da 16 anni in su, et rende un million et ducento mille; da terratici, per li fondi delle case et possessioni, pagate indifferentemente da tutti, un million et trecento mille; da datii d’entrata et uscita dalla città di Costantinopoli, un million e settecento mille; dalla speditione d’offici, che noi dicemo la cancelleria o la bola, quattrocento mille. A questi si aggiunge quanto li bassà delle provintie mandano ogn’anno alla Porta, netto dalle spese che convengono far in esse.
Perché la Europpa manda [***] in questo modo: la Valacchia 50 mille, la Moldavia 30 mille, la Transilvania 10 mille, le città del Danubio 90 mille, il patrimonio del re in diversi terreni per tratte di formenti 250 mille, li Ragusei 16 mille, l’isole dell’Arcipelago 40 mille.
L’Asia poi, per l’Arabia Felice, ne manda 50 mille, per Damasco 60 mille, Aleppo 170 mille, Tripoli di Soria 50 mille, Cipro 40 mille, Rhodi 16 mille, Natolia 90 mille, Trebisonda 12 mille, che importa tutto.
Ma l’Africa, che per il Cairo si può dir la vera miniera di quell’Imperio, gli somministra somma maggior, perché tripartite le sue rendite, che importano un milion et ottocento mille cecchini; 600 mille s’impiegano nel pagamento di quelle militie, mantenimento del bassà et altre necessarie, ministri, provisioni di polveri per l’armata, di zucari, drogherie, et altro per il Serraglio di Costantinopoli. Altretanti ne manda alla Meca, per le spese i quel luoco. Gl’altri 600 mille per resto di tutta la summa, s’inviano ogni anno per via di terra a Costantinopoli, in tanti ceriffi, cecchini di quella cecca, di miglior liga degl’altri, per riporsi nel Casnà di dentro, interno et securo tesoro del Gran Signore.
Li regni di Tunesi, Tripoli et Algier non mandano alla Porta cosa alcuna, ma quanto si cava tutto si spende nel mantenimento di quelle militie et di quei bassà, li quali, a nome di quei luochi solevano mandar ogn’anno ricchi presenti al Gran Signore; ma doppo che cresciuti tanto, per li corsi di mar, di forze, et di ricchezze, hanno perduto il rispetto et l’obedienze a Sua Maestà, cessano anco di questi segni d’obsequio et di devotione.
Dal predetto computo si vede che la somma dell’entrte ordinarie che capitan ogn’anno a Costantinopoli nei Casnà del Gran Signore, ascende a quella che ho detto di sei miliona di cecchini in circa. Li quali, dalli 600 mille in poi destinati al Casnà di dentro, che resta del continuo fermato dal proprio sigillo di Sua Maestà, et le chiavi appresso di lei, si ripongono gl’altri nel Casnà di fuori, sotto il sigillo del primo visir, et sono assignati a tutte le spese che accadono, le quali sarei troppo lungo a rifferir, bastando questo solo, esser elle così molteplici, et grandi, et giunte hoggidì per l’eccessivo accrescimento delle militie seguito nelle passate rivolutioni a tal segno che non solo assorbiscono tutta la predetta summa, ma qualunque altra che er vie indirette et violenti che dalli defterdari et emini si va con gran violentia estorguendo; et non basta che d’alcuni anni in qua convengono valersi di buona parte delli 600 mille destinati al Casnà de dentro, nel quali non solo non si ripone tutta la somma, ma ben spesso a tempi delle paghe è costretto il re dar fuori la riposta ben sotto nome d’imprestido, ma che non vien mai risarcito, se non alle volte con le teste et beni dei defterdari, come successe a mio tempo di Ganizapan.
L’entrade estraordinarie, che per il loro continuo corso così si possono chiamar le presenti, donativi, confiscationi et heredità che
colano del continuo nell’erario del Gran Signore, come non si possono determinatamente sapere, così al creder mio sotto sultan Osman hanno ecceduto la somma dell’ordinarie poiché quel principe, di natura molto avida, non mirava in altro che in amassar thesoro per tutte le strade; et tutti li grandi, conoscendo la sua natura, convenivano segondarla con grossi presenti, non già in gioie, cavalli et vesti, come eran soliti coi suoi precessori, ma in soli contanti. Né si otteneva carico, ufficio et dignità, né suffragio o speditione alcuna senza comprarla, et ogni cosa era fatta venal, in modo che l’entrate estraordinarie ascendevano a somma molto importante, et quasi raddoppiata dall’ordinarie sotto Mustaffà; per la somma confusione et disordine di tutte le cose, anche in questa non v’è misura o termine alcuno, ma tutto in preda all’avaritia et rapacità de ministri. Onde l’espilationi erano inesplicabili, con questa differenza però: che sotto Osman tutte confluivano nel suo erario, et si rapiva da tutti per dar a lui solo, ma sotto Mustaffà ogni cosa si dava alle militie, impoverendosi lui et ogn’altro per saciarle.
Hora nell’Imperio di sultan Amorat, anche in queste parti hanno le cose preso miglior forma perché, documentato dall’infelice successo di Osman di non tirar il tutto in sé solo, et dalle confusioni di Mustafà di non lasciarli meno tirar da altri, procede nell’esationi di queste utilità et proventi estraordinarii con moderation tale che, essendosi in particolare grandemente ristretti li presenti et donativi di grandi, stimo io che hora non ascendino di gran lunga la somma dell’ordinarie, tutto che per la morte di Giorgi Mehemet, Saimen Bassì et altre principal teste siano per via di confiscatione devolute a Sua Maestà di grosse somme, la quale herede oltre ciò delle facoltà di tutti li suoi stipendiati, che sono un immenso numero, et di quelli che morono senza posterità, trahe di questa ragione un gran profitto. È vero che anco il re per l’uso e l’obbligo di donar a molti, et soccorrer ben spesso ai bisogni dell’occorrenze ordinarie, è costretto a refluir dall’entrate estraordinarie con un giro di perpetuo flusso et riflusso, che non lascia lungo tempo stagnar né fermar l’oro nel suo erario, come già soleva.
Fra tutte le cose difficili da penetrar con buon fondamento nella notitia del governo dell’Imperio Otthomano, quella del loro thesoro, che chiamano Casnà di dentro, dove si ripone et serba il denaro non applicato ad alcuna particolar spesa, sotto la sola chiave et sigillo del re, è molto incerta, perché degl’altri re et principi dal computo delle loro entrate et uscite, non è difficile comprender quel cumulo di denari posson trovarsi; ma dei re de Turchi per la molteplice et incerta quantità di proventi estraordinari, detti di sopra, non si può se non con incertissime congetture indovinarlo. Io però intorno a questo capo, per li sucessi accaduti nel mio bailaggio, posso con molta sicurezza parlarne perché, essendo certissimo, et dal fatto chiaramente comprobato, che all’assuntione del presente re non si trovava in quel Casnà alcuna o pochissima somma, et facendosi il conto di quella che nel suo tempo vi può esser stata riposta, et conservata, trovo che non può passar doi miliona d’oro in circa, et che continuando le cose nel stato in cui le ho lasciate, converrà più tosto diminuire che aumentare la predetta summa, poiché non supplendo di gran lunga l’entrade ordinarie per li disordini introdotti dalle revolutioni in qua grandemente diminuite all’ordinarie spese con l’eccessivo accrescimento delle militie et delle paghe, grandemente aumentate, è costretto il re ben spesso supplire coi denari di detto Casnà, nel qual, non entrando più d’alcuni anni in qua li 600 mille cecchini del Casnà del Cairo, applicati con altri dell’Asia alle guerre di Persia, ma solo la metà, et anco la terza parte, né potendo bastar li proventi estraordinarii in loro risarcimento, conviene la detta somma di doi miliona per necessità andar scemando; onde certa cosa è che mancando alla Maestà Sua il denaro, con la copia del quale hanno potuto li suoi maggiori condur a felice fine tante importanti imprese, non sarà a lei anco per tal mancamento facile il farlo. È commune opinione che alla morte di sultan Acmet suo padre, si trovasse nel detto Casnà la somma di sei miliona di cecchini, de quali tre ne furon spesi nell’assuntione di sultan Mustafà et di sultan Osman, per li soliti donativi alle militie di giannizzeri di 25 cecchini per uno, et alli spahi di mille aspri, la qual somma, se ben fu molto presto non solo reintegrata, ma anco aumentata da Osman, tutto intento ad accumular, non di meno convenuto egli dar un altro donativo simile per la sua prima uscita alla guerra di Polonia, et spenduto largamente nella detta guerra, non lasciò alla sua morte più di quattro miliona in circa, li quali, tra un novo donativo di sultan Mustafà nella sua reasuntione, et tra le grandi espilationi del detto Casnà seguite nel suo disordinato governo, mentre era in preda della madre, di Daut suo cognato, et finalmente di Cusseim Mer primo visir, che per mantenerlo nell’Imperio tenevano con la forza dell’oro le militie a sua divotione, restò la detta somma ben presto consumata, sicché all’assuntione del presente re, per far il solito donativo, convennero fabricar li cecchini di liga molto bassa, fonder l’argenterie di Serraglio et, con indignità mai più usata, mendicar dalli ambasciatori de principi christiani la summa di trenta mille cecchini ad imprestido.
Chiudo questo capo del denaro con accertar le signorie vostre eccellentissime hoggidì il mancamento d’esso in quel governo esser tanto grande che, seben tutto il studio de visiri et defterdari non s’impiega in altro, non pono supplir al bisogno delle spese ordinarie, né alle paghe delle militie le quali, come già ogni tre mesi erano sempre pronte, così al presente ne scorrono sei et più, con gran mormoratione di esse militie, et continuo pericolo di sollevationi. Dal medesimo mancamento nasce la declinatione delle forze terrestri et maritime, la mala riuscita delle imprese, il discontento de popoli, la strettezza del negotio et di tutte le cose, perché, andando il re ristrettissimo nelle spese, et li grandi facendo il medesimo, non si vede più alla Porta et nella città di Costantinopoli quel splendor et profluvio di denaro col quale li suoi precessori si acquistavano la devotion de sudditi, fiorivan i negotii, et ciascuno partecipava della loro munificenza.
Sin qua ho rappresentato alla Serenità Vostra et alle signorie vostre eccellentissime, con quella brevità che mi è stato possibile, l’ampiezza, le forze, et le ricchezze dell’Imperio Otthomano, nelle quali è fondata la sua potenza, et il primo capo del mio raggionamento, et ho mostrato quanto per il presente stato loro ella sia diminuita.
Passerò al secondo, che è la forma del suo governo, il quale, perché è principalmente fondato nella lor legge, è necessario dir qualche cosa sopra di essa.
Fu veramente Mahometto pseudo proffetta grand’architetto per fabricar una monarchia, poiché sapendo egli molto bene quan ta forza habbia negl’animi degl’huomini il rispetto della religione, compose la sua della mosaica, christiana e pagana ancora, per allietar ciascuno ad abbracciarla, facendo un misto che servisse non solo per la religione, ma per la politica ancora.
Però appresso Turchi, tutte le cose di religione, di stato et di giustitia si regolano con una sola legge, che è l’Alcoran, li decretti del quale son tenuti da loro in tanta veneratione che, se bene vien detto la volontà dell’imperatore esser superiore all’istessa legge, si guardano molto bene li imperatori di contravenirla, anzi non ardiscono far deliberatione alcuna di guerra, di pace o altra cosa grande senza il fetfà del muftì, capo della loro seta; né altra cosa forse cagionò maggiormente la rovina di sultan Osman che il mostrar non tenerne conto, da che presero i professori d’essa materia di fomentargli la sollevatione delle militie et del popolo contro, et levargli il regno e la vita.
Hanno bene gl’imperatori otthomani un altro codice, che chiamano Canon, nel quale son descritti gl’usi et consuetudini del lor governo, et se ne servono nei casi che non son disposti dalla legge, et dove ella non fa per loro; et così quello che non possono far per legge, lo fanno per Canon.
Il muftì, anco shiavo come gl’altri del re, fa ben spesso parlar la legge secondo la sua volontà, dando il fetfà, che vuol dir risposte con brevi parole, a guisa d’oracoli, conforme al suo gusto.
All’istesso fine della monarchia indrizzò Mehemet con la sua legge tutte le cose alla guerra, mettendo la diffesa et propagatione d’essa non nelle dispute ma nella spada, commandando che con essa si dilatasse et si costringesse tutte le genti a riceverla, né mai dall’armi si cessasse, sin che tutte le nationi non divenissero mussulmane, o almeno soggette. Quindi è che non potendo l’Imperio de Turchi per legge contraher pace et amicitia con prencipi christiani, lo fanno per Canon.
Col medesimo oggetto permette egli quattro mogli a ciascuno, et l’uso con quante schiave potesse notrir, acciò con la propagatione et moltitudine si propagassero li acquisti et l’Imperio, né per altro prohibì l’uso del vino et la vista et prattica delle donne, che per le strade vanno coperte, et in casa rinchiuse et ritiratissime, se non perché, non potendo gl’huomini condurre né l’uno né l’altre nelli esserciti, fossero maggiormente liberi et pronti all’imprese. Instituì una forma di giustitia breve et sommaria, consistente tutta non in altra prova che in quella de testimonii, quale appuntosi convien nella guerra. Stabilì nell’animi de suoi seguaci la certezza dell’eterna salute a chi muore in essa, et la credenza della predestinazione, et volse che in tutte le cose mostrassero una gran confidenza et rassignatione in Dio, er renderli più pronti ai pericoli.
Per questo i Turchi nell’apparenza si dimostrano molto religiosi e pii, hanno sempre in nome di Dio in bocca, l’invocano in ogni loro attione, orano cinque volte tra il giorno e la notte, et il venerdì, giorno loro festivo, sei, per il più nelle moschee, che in Costantinopoli sono in gran numero, et alcune di fabbrica molto superba.
Hanno anch’essi la loro quadragesima, che chiamano Ramasan, d’una luna intiera, nella quale il giorno s’astengono d’ogni cibo et bevanda, ma la notte, senza distintion di cibi, s’empiono molto ben, doppo la qual celebrano per tre giorni il Bairan, che è come la nostra Pasqua, con bagordi et tripudii, che consistono nel biscolarsi in pubblio su le strade. Per il passato furono Turchi osservantissimi della lor religione, a che da molti viene attribuita la buona fortuna et prosperità dalla quale per il più sono stati accompagnati nelle loro imprese. Da un tempo in qua, ella appresso loro è grandemente decaduta, et tenuta in poco conto, et da ciò essi medesimi dicono di dipendere le mutationi che al presente provano dalla buona in contraria fortuna. Sopra tutto nell’uso del vino son fatti dissolutissimi, bevendosi dal populo pubblicamente nelle taverne con ogni libertà; le militie hanno usurpato l’amministratione dell’entrate delle moschee, convertendole in uso proprio, et buon numero d’esse restano chiuse et inofficiate; li cadì et proffessori della legge, per le loro manifeste ingiustitie et venalità, son caduti in vilipendio et odio a ogn’uno, et dove prima erano tenuti sacrosanti et inviolabili, furono a tempo mio sotto sultan Mustaffà, con essempio inaudito, per ordine di Cusseim primo visir assaliti et trucidati da una mano di azamoglani, et bagnate le moschee del loro sangue, senza che alcuno si movesse in loro diffesa. Queste, et molt’altre operationi fatte da grandi, et dalle militie della Porta in disprezzo della lor religione, et sopratutto l’haver messo le mani nella vita et sangue del proprio re, reputato da loro vicario di Dio et del Profeta in terra, fa chiaro conoscer la declinatione ch’ho sopradetto, la quale, conosciuta anco dall’universal de Turchi, Arabi et Tartari, setatori della stessa legge, appresso quali ella si mantiene tuttavia in molto maggior stima et osservanza che non fa alla Porta, fa che con quelli sia con loro caduta in pessimo concetto, come disperatrice della religione, et da Dio abbandonata; da che hebbe Abbassà, bassà d’Arzirum, grande facilità di sollevar i popoli d’Asia, et con formato essercito penetrar sino in Angori, sotto pretesto della violata religione, et il Tartaro, di macchinar all’oppressione della Casa Otthomana et tirar nella suo l’Imperio, come si dirà a suo luoco.
L’assoluto arbitrio del governo di quell’Imperio risiede nel solo re, il qual assoluto signore delle facoltà et vite d’ogni uno, comanda liberamente ciò che gli pare, et venivan per il passato da tutti infallibilmente li suoi commandamenti obediti; ma al presente l’eccellenze vostre ben sanno il poco conto che si fa di essi, et dei caticumaium medesimi di proprio pugno del re, per non venir mai li trasgressori puniti, et ben chiaro si vede esser per tutto l’Imperio l’obedienza perduta. Con tutto ciò il rispetto e la veneratione se gli conserva ancora grandissima, usando essi per maggiormente accrescerla di starsene quasi sempre ritirati nel suo Serraglio, et lasciar tutto il peso del governo sopra le spalle del primo visir, il quale, luocotenente del re, ordina et comanda quanto gli par, senza anco in molte cose dargliene parte, se non sono molto importanti, et senza communicarle con gl’altri visiri, se non gli par. Entra egli per ordinario doi giorni della settimana, la domenica et il martedì, insieme con gli altri visiri et principali officiali all’audientia del re per rifferirgli quanto gli par, presentandogli le suppliche et memoriali con un breve compendio del suo parere, che chiamano talchis, conforme al quale viene quasi sempre risoluto da Sua Maestà, non aprendo gl’altri bocca se non sono richiesti da lei, il che fa molto di rado. Manda anche molto spesso li talchis al re, senza andarvi egli medesimo secondo l’occorrenze, li quali gli sono rimandati sottoscritti con un brevissimo moto di doi o tre parole di pugno del re, in espressione della sua volontà. Va anco tutte le volte che gl’occorre in audienza estraordinaria, et spesso viene chiamato dal re, et ciò sempre con suo gran spavento per timor che ricevuto il re, o andando alle moschee, o per qualche altra via, qualche memoriale contra di lui, non lo chiami per castigarlo. In somma grandissima et quasi assoluta è in quel governo l’auttorità del primo visir perché, se bene vi è un consiglio che si tiene quattro giorni la settimana nel proprio Serraglio del re, chiamato Divano, nel quale intervengono li altri visiri, al numero di X in circa, quando più et quando meno, et li altri principali officiali del governo, non si tratta però in esso se non quanto piace al primo visir, et per il più instanze et negotii de particolari, commessi da lui alli cadileschieri presenti, acciò li vegano per giustitia. Ma li affari gravi et importanti si trattano conlui solo, in casa sua propria; a lui s’indrizzano le lettere dalli begliebei et bassà di fuori; con lui fano capo tutti li officiali della Porta nelle materie del denaro, di giustitia, dell’annona, et d’ogni altra cosa; da lui dipende la distribution dei carichi dentro et fuori per tutto l’Imperio; con lui trattano et risolvono li ambasciatori de principi i lor negotii. Ne gl’esserciti in tempo di guerra comanda egli, et è obedito come il re proprio, anzi con tanta auttorità che molte volte la collatione d’un governo fatta da lui in qual si voglia parte dell’Imperio, sarà preposta a un’altra fatta dal medesimo re, il quale, per il più, elegge per caimacam in suo luoco quello che da lui gli viene proposto.
Questa tanto assoluta potestà impartita in un sol soggetto, che in altra forma di governo saria pericolosa, in quella dell’Imperio Otthomano riesce non solo utile, ma necessaria, nella quale né la mole degl’affari admette consulte, né la violenza del principe scusa gl’errori, né la schiavitù del ministro apporta la gloria che faria altrove.
L’administratione della giustitia civile et criminale ancora è in mano delli cadì, tutti proffessori della legge, quali dal primo visir son mandati per un triennio al governo delle terre per tutto l’Imperio, et l’amministrano con somma brevità, consistendo ogni prova di qual si voglia controversia nel solo detto de testimonii, senza scritture o dispute d’avvocati, et senza dilationi et termini nelli quali, come soprabundiamo noi, così Turchi mancano tanto, che è difficile a terminar qual sia maggior disordine. Questo è certo, non esserci hoggidì parte alcuna di tutto il corpo di quel governo più guasta et corrotta di questa, per l’avaritia di essi cadì che la rendono venalissima, et per la copia de testimoni falsi, de quali si fa pubblico mercato, donde nascono le tante vanie, con sommo aggravio de Christiani, il testimonio de quali non valendo contra Turchi, ma ben il loro contra Christiani, convengono restar oppressi.
Alli medesimi cadì è anco raccomandata in ciascuna città la cura delle vettovaglie et dell’abbondanza, con la limitation del prezzo a quasi tutte le cose, et quello di Costantinopoli, in compagnia del primo visir, cavalca ogni mercoledì per la città per ovviar all’inganni con altri buoni ordini, quando fossero osservati, et non corrotti dalla medesima loro avaritia. Onde nelle medesima città di Costantinopoli, alla quale per l’eccellenza del suo sito nutrito da doi mari, quasi da doi pregnissime poppe, confluisono con tutti i venti abbundantissime provisioni, si prova molte volte delle cose spettanti al vivere penuria grande.
Oltre li cadì, si manda in ciascuna città un sanzacco, al quale incombe la cura delle cose militari et la sicurezza del paese, et nelle maggiori un altro con titolo di bassà; et come a questi sono subordinati li sanzacchi, così li bassà alli beglierbei, che sono doi, uno della Grecia et l’altro di Natolia. Pare però che questo grado, che per l’adietro soleva esser amplissimo, comandando l’uno a tutte le militie d’Europpa, et l’altro a quelle dell’Asia, non si sostenti al presente nella primiera riputatione.
Parimenti sopra tutti i cadì nell’administratione della giustitia prendono due cadileshieri di Grecia et di Natolia, che se bene questi nomi sono giudici delli eserciti, non vanno però in essi se non con la persona reale, ma risiedono a Costantinopoli. Giudici supremi, et di somma auttorità, a quali con tutto ciò non si devolvono le sentenze dei cadì, che sono innappellabili.
Supremo capo della legge et di tutti questi è il muftì, come tra Christiani il sommo pontefice, senza il cui assenso il re istesso non risolve cosa importante; ma venendo egli creato et deposto a beneplacito di Sua Maestà, et suo schiavo come gl’altri, accomoda egli per il più la sua alla volontà di lei, et serve per auttorizzarla tanto maggiormente con i popoli. Vale sommamente in tutti li negotii la sua auttorità, il quale con certi brevissimi suoi rescritti a guisa degl’antichi oracoli manda fuori li decreti della legge in qual si voglia caso che in termini generali gli venga proposto, a quali, quando gli siano veramente espressi, viene quasi sempre assentito et giudicato conforme al suo fetfà.
Superior a lui, et a tutti, assoluto signor et delle vite et delle facultà, vicario di Dio et del Proffeta in terra, in cui s’accoglie tutta la potestà spirituale e temporale, egli solo signor et tutti gli altri schiavi, è il re.
Quello al quale la Serenità Vostra mi mandò suo bailo fu sultan Osman, morto come l’è noto. A lui successe sultan Mustaffà suo zio, due volte deposto, et ancora vivo; et a questo il presente sultan Amorat, sotto quali tre re ho passato il corso del mio bailaggio. Parerebbe forse che essendo li dui primi uno mancato di vita et l’altro del regno, potessi far dimeno di parlarne; ma essendo sotto di loro succeduti accidenti memorabilissimi, et forse li maggiori che per l’adietro nella casa otthomana siano accaduti, et per le loro importantissime conseguenza, molto ben degni et necessarii alla notitia di questo eccellentissimo Senato, stimo mio debito non passarli sotto silentio per l’attinenza grande che tengono con le cose di questa Serenissima Repubblica, et per il frutto che se ne può ricevere nel buon governo et indirizzo di esse dalla loro distinta e vera notitia, la quale, se bene dalla continuata serie delle mie lettere, dalla relatione d’altri et da quella della fama stessa, sono già in qualche parte state portate alle loro orecchie, doveranno certamente restar esse più paghe et sodisfatte di sentirle anco dalla viva voce di chi non per racconto d’altri, et quasi per imagine, ma trovandosi sul fatto ha potuto molto ben conoscere non solo li sucessi, ma comprendere et penetrare le cause et le conseguenze d’essi, in che consiste quella fruttuosa cognitione alle cose nostre, ch’ho sopra detto, per la quale convenendo farmi alquanto da alto, dico che essendo l’anno [***] venuto a morte sultan Acmet, lasciò quattro figlioli maschi, il maggior de quali fu sultan Osman, et per conseguenza herede dell’Imperio, il quale però all’hora non gli toccò perché il padre, considerata la tenerezza della sua età, che non arrivava al quartodecimo anno, chiamato a sé Mustaffà suo fratello, giovane di 27 anni, il quale contra l’uso de suoi maggiori haveva lasciato in vita, lo instituì herede dell’Imperio, raccomandandogli il figliolo Osman, con speranza che giunto a maggior età havesse Mustaffà, il quale per il tenor della sua vita era da lui e dagli altri tenuto per santo et alieno dall’ambitioni del regnar, a rinontiargli l’Imperio. Regnò Mustaffà tre mesi perché, scopertasi ben presto la imbecilità del suo ingegno stolido et inhabile, fu per concorso d’alcuni visiri et grandi della Porta, et dal muftì medesimo, deposto, usando in ciò seco quell’artifitio che per la sua stolidità non fu difficile, et col popolo dando voce che egli medesimo l’havesse rinontiato a Osman, il quale, assunto all’Imperio in così giovane età, desse qualche tempo dopo Alì suo primo visir, quello che fu tanto mal affetto a questa Repubblica, huomo perfido et rapacissimo, uno anch’egli degli architetti della depositione del zio et della sua assuntione. Costui spiata l’indole del giovanetto prencipe, avida, vivace et eretta a cose grandi, cominciò coi suoi consigli et adulationi a lusingarla, mostrandogli quanto fosse necessario per giunger al segno della gloria, et delli acquisti fatti da suoi maggiori, et da sultan Suleiman in particolare, i gesti del quale pareva che per suo natural istinto Osman s’havesse preso ad emular, di risarcir et aumentar il tesoro, che dai prossimi passati imperatori era stato grandemente estorto, et accompagnato al consiglio l’effetto, cominciò a porger al re di quando in quando grossissime somme, le quali egli con manifesta tirannide estorceva da tutti in ogni peggior et violento modo. Con questi mezzi s’andava l’animo di Osman inescando nell’avaritia et nel desiderio d’accumular, et contra il costume de suoi maggiori, che più con la liberalità che con altro si resero grati ai popoli et alle militie, si restringeva non solo nei donativi, ma anco nella prontezza delle paghe, et in tutte le spese, sino con sé medesimo; et usando certi suoi modi rigidi assai, et diversissimi dai re passati, non riteneva quell’affettione et benevolenza del popolo et delle militie ritenuta da loro; s’aggiungeva una carestia di viveri et una strettezza di negotio estraordinaria, le quali, se ben procedevano da altra causa, venivan però, come è costume del popolo, attribuite al principe et al suo mal governo. In questo stato di cose, et poco buona dispositione delle militie, risolse Osman impatiente di riposo et avido di gloria, contra il consiglio de suoi visiri, di muover guerra a Polacchi, et andarvi in persona, per vendicar sopra di essi le ingiurie di Cosacchi che infestavano il Mar Nero, con certa fiducia nata da suoi generosi spiriti, et dall’adulationi altrui, di facilmente debellarli, et render quella corona sua tributaria; et persuadendosi che la vittoria consistesse nella moltitudine, chiamate da tutte le parti del suo Imperio le militie, adunò numerosissimo esercito di settecento mille persone, il maggiore che da gran tempo in qua da alcuno de suoi predecessori fosse stato adunato, buona parte delle quali erano genti inutili et vagabondi, restandosene molto numero di giannizzeri et di spahi a lui poco affetti, et hormai datisi al lusso et all’otio alle loro case. Era di quei giorni mancato opportunamente di vita Ali primo visir il quale, alieno dalla detta guerra, havea fatto ogni opera per divertirla, proponendo a tal effetto, et per disfogo del suo odio, quella contro la Repubblica, nella quale anco come molto esperimentato nelle cose maritime, et niente nelle terrestri, prometteva prosperi eventi, et per sé molto avanzo di ricchezze et di riputatione, et perciò era andato molto lento nelle necessarie provisioni per la guerra di Polonia; il che veduto da Cussein eletto in suo luoco, non potendo impedir la guerra, fece ogn’opera per impedir almeno l’uscita del re. Ma Osman, non stimando alcuna difficoltà, spinta l’armata in Mar Nero, si mosse verso Andrianopoli, dove haveva d’adunarsi l’essercito, che per le cause accennate tardava a ridursi.
È costume dell’imperatori otthomani la prima volta ch’escono in campagna per qualche impresa far un donativo alle militie, che importa un millione e mezo d’oro; questa spesa, rincrescendo al re, per natura tenace, s’ingegnò con buona inventione di scansarla, in particolare perché non dovendosi, conforme all’uso, far il donativo se non passato il ponte del fiume [***], che è fuori d’Andrianopoli, Osman giunto in quella città, et disgustato dalla tardanza delle militie, se ne valse a suo vantaggio nel donativo predetto, dandolo solamente a quelle che vi si ritrovarono, et negandolo poi all’altri che sopragiunsero, come non ne fosse obligato. Da queste reciproche male sodisfationi tra il re et le militie, quasi de fonti d’ogni suo male, hebbe origine la mala riuscita della guerra, et poi tutte l’altre pessime conseguenze, et finalmente la depositione et morte di Sua Maestà, perché giunta ai confini di Polonia, et dato principio all’impresa, trovò il suo essercito tanto mal disposto et ritroso alle fattioni che quel de Polacchi che non arrivava a ottanta mila, gli fe sì brava resistenza, che il turchescco non potè mai accostarsi alle trincere di Cottin, palesando in tutte le occasioni la sua mala dispositione verso il re, il quale all’incontro, grandemente esacerbato, non disimulando contro le militie il suo mal talento, non rimunerava alcuno che gli fosse segnalato in qualche facione, come fu sempre il solito de suoi maggiori, et se pur lo faceva era con tanta strettezza che non mancorono di quelli che, sprezzando il dono, con poco rispetto lo regitarno inanci. Perciò, vedendosi le militie così mal riconosciute, poche volevano mettersi a rischio, molti si astenevano dalle faccioni, et tutti mormoravano contra il re, il qual, curioso di spiar li loro sensi, vagando la notte incognito per l’essercito, hebbe a sentir discorsi seditiosi che facevano le militie contra la sua persona, a favor di Mustaffà suo zio, sopra certo aviso sparsosi nel campo, che il popolo di Costantinopoli l’havesse levato di Serraglio et ripostolo nelle sede regal. Dicono che questa cosa turbasse, come è credibile, sommamente l’animo di Osman, et fosse principal cagione di retirarsi da quell’impresa, et che aggiuntovi il mancamento de viveri, et molte altre contrarietà che la rendevano difficile, gli facesse prestar l’orecchie all’accordo che per coprire il dishonore della ritirata, si sparse esser seguito con gran suo vantaggio, et ricondottisi in Andrianopoli pieno di mal talento e volontà ccontro le militie. Licentiatele quasi tutte, giunse con pochi a Costantinopoli, et come ben dal suo volto et portamento si comprendeva gravido di dolore et di sdegno, li quali affetti niente meno apparendo nei volti delle militie che l’accompagnavano et del popolo medesimo, concorsovi in infinito numero, non fu il suo ritorno celebrato con quell’applauso che verso li suoi maggiori in tali occasioni fu sempre solito, et in luogo dell’acclamationi, usando il popolo un duro et ostinato silentio, così che exulcerado maggiormente l’animo di Osman, impotente a dissimularli, et acceso a risarcirsene, subito giunto comandò che fosse tagliata la paga a tutti li giannizzeri che non erano intervenuti alla guerra, et diminuita alli vecchi et impotenti, che chiamano otturachi, et ne sono esenti. Et cercando paliare pretesti ordinò che fossero severamente castigati quei di loro che, restati in presidio di Costantinopoli fecero certo tumulto contro il caimecan per le paghe, et con altre sì fatte dimostrationi scopriva il suo intero concitato animo contra le militie, onde hebbe origine un sospetto et una voce sparsa tra esse, che egli havesse in animo di disfarsene et istituirne di nove, o pur, con l’esempio de prencipi christiani, mantenersi d’ordinario assai minor numero, per accrescerlo poi in tempo di bisogno, et così restar libero dalla spesa et ai tumulti. Al qual sospetto, acquistando facilmente fede la forma della sua avaritia nell’animo delle militie di giannizzeri già inciprignite, et prettendendo esse grandemente di sé medesime et del suo merito con la casa otthomana d’avergli col proprio valore acquistato et conservato sì grande Imperio, et tenuti perciò dalli passati imperatori in sommo grado di benevolenza et di stima, non potevano hora dal presente sultan Osman tolerar tanto disprezzo. Ma egli, poco curandosi del lor disgusto, portatosi dall’alteriggia del suo spirito et da mal misurati consigli, non bastandogli il disgusto della militia, cominciò anco a disgustar il popolo, et sotto colore di correger li suoi trascorsi costumi nell’uso del tabacco et del vino, li puniva con severe pene, vagando egli medesimo di giorno et di notte con suoi azamoglani armati travestito per la città, et entrando nelle proprie taverne et facendo capitalmente punir li trasgressori alla sua presenza; erano veramente queste et altre simili operationi indegne del decoro et maestà di tanto principe, et biasimate da ogn’uno, tanto maggiormente che non passavano senza pericolo della sua vita, che un giorno a studio o a caso non fosse offesa. Ma al giovane d’animo feroce pareva che stassero bene, et quasi rigido censore dei costumi del popolo se le attribuiva a laude, né alcuno de suoi visiri osava dirgli in contrario, conoscendolo d’animo ostinato et pertinace. Accresceva l’universal disgusto che egli in molte cose di dipartiva dalli costumi de suoi maggiori, particolarmente nell’amogliarsi con donne libere, et fuori del suo Serraglio, da che, per non acquistar ad altri appoggi et adherenze furono sempre li principi otthomani alieni, amogliandosi in sole schiave con donne d’alieni paesi. Ma egli, invaghito dalla fama della bellezza della figliola del muftì, non ostante molta renitenza del padre, la prese per moglie. Ma quello che forse più che altro cagione la sua rovina fu il poco conto mostrava tener della lor legge e dell’auttorità dei proffessori d’essa, che appresso i suoi maggiori furono sempre in gran stima.
Gli era, come all’hora avisai la Serenità Vostra quasi subito dopo il suo ritorno dalla guerra di Polonia, caduto in pensiero di trasferirsi in peregrinaggio alla Mecca, nato in lui o da spirito di divotione o da altro, poiché tra le altre obligationi che lasciò Mahomet a i seguaci della sua legge, una fu che ciascuno, quando però lo poteva fare senza danno proprio e della sua famiglia, fosse tenuto una volta in vita sua peregrinar a quel luoco, tenuto da essi per il primo tempio fabricato in terra per mano degl’angeli, et in cui habitò et adorò Abramo; con la qual occasione visitano anche il sepolcro di esso Mahomet in Medina, poco di qua della Mecca. Non era alcuno né del governo né della legge che non dannasse una tal risolutione, non mai più fatta dai passati re; et furono pur di quelli che prevedendo li suoi mali effetti presero ardire di dissuadergliela, per interesse non meno di stato che di religione. Quei della legge gli consideravano che col suo esempio gli altri prencipi mussulmani, come il Persiano et il Tartaro, fariano il medesimo, da che perderiano gl’Otthomani la prerogativa che al presente godono di mandar a coprir ogn’anno con una ricchissima tenda l’altar di quel tempio, in segno di dominio, tenendo la superstizione della lor setta che con dominio d’esso vadi congiunto quello di tutto il mondo, per il che s’impiegano gl’Otthomani nel suo mantenimento un’eccessiva spesa.
Li visiri gli proponevano di quanto danno poteva esser l’allontanarsi per tanto spatio dalla sede del suo Imperio, mentre la pace di Polonia non era ben stabilita, l’imperator armato, il Transilvano pacificato seco, li Cosacchi infestavano il Mar Nero, et li principi christiani il Bianco con importanti disegni; gli ponderavano il sospetto che prenderia il Persiano di questa mossa quando andasse armato, ed quando no il pericolo degl’Arabi, potenti et arditi, la diminution della Maestà non accompagnata da quella grandezza che colla lontananza si sostenta nel concetto dei popoli anco maggior di sé stessa. Soprattutto gli mettevano inanzi la poco buona dispositione delle militie et del popolo, che restando a Costantinopoli senza la sua persona per tanto spatio lontana, potrian cagionar rivolution grandi. Et prevalendosi essi di tutte le occasioni per dissuaderlo, tentò anco Dilavert primo visir all’avviso dell’arresto dei doi vascelli carichi de grani per Costantinopoli presi et condotti dalle nostre galeazze alla Canea, della presa della galeotta di Giail Omer, et d’altri accidenti successi a quel tempo ai confini di Dalmatia, et altrove, d’insospetir l’animo del re, di Vostra Serenità, facendone quei gran rumori che all’hora avvisai, et mossero la Maestà Sua a volersene certificar da me per via del bostangi bassì, et restandone sincerata tanto più si confermò alla partita. Onde, spinta subito parte dell’armata in Mar Nero, et comandato al capitan bassà d’uscir senza dilatione col resto nel Bianco, pubblicò la sua mossa, né voler, per esser ella causa di devotione, molto seguito, ma solo X mille in tutto, né altre militie che doi mille giannizzeri, altretanti sphai, il resto del suo Serraglio et della corte d’alcuni visiri ch’haveva comandati d’accompagnarlo. Così, preparate tutte le cose, decchiarato il caimecan et offitiali da restar in Costantinopoli al governo, fatto il giorno prima partir il capitan bassà con l’armata, il giorno di 19 maggio [***], mentre sopra alcune galee s’imbarcavano li suoi padiglioni et salmerie per passarli a Scuttari, cominciosi a sentir per la città un gran tumulto suscitato dalle militie di sphai et de giannizzeri che, unitisi insieme, andarono alla moschea di sultan Mehemet, nella qual erano medesimamente ridotti molti proffessori della legge, auttori et concitatori di questo moto, et di là alla piazza dell’hipodromo, la maggior di quella città. Havevano li detti proffessori, vedendo ogn’altro mezo esser vano, stillato nell’animo delle militie un sospetto, o vero o falso che fosse, che il re, incassato tutto il tesoro, volesse portarlo seco, con risoluto disegno di assoldar in Asia un potentissimo essercito di militie nuove, et a lui ben affette, col quale, ritornandosene subito in Europa, disegnava assalir le vecchie e farle passar tutte a fil di spada, sfogando in tal maniera il concepito odio contra di esse, non riputandosi assicurato nell’Imperio sin tanto che non fossero estinte affatto, et questa esser la vera e sola cagione della sua mossa. Cosa che dalle militie già disposte a ogni mala impressione facilmente creduta, hebbe forza, et fu il vero mantice della sollevatione, nella quale, come poi si conobbe, non hebbero essi altro per fine che impedirgli la partita et haver le teste del primo visir, et altri stimati partecipi di tal suo disegno, il quale non potrei certamente affermar alla Serenità Vostra che fosse vero perché, morti in quella revolutione tutti quelli che potevano esserne consapevoli, resta tuttavia nell’opinione de gl’huomini con grande incertezza quello che all’hora si divulgò. Fu che, vista il re la mala nova delle militie nella guerra di Polonia, et scoperto verso di lui il lor mal talento, se ne dolesse acerbamete con Dilavert primo visir il quale, per consolarlo, prattico delle cose d’Asia per esser stato lungamente al governo di Mesopotamia, gli comentava et esponeva il valor et la fede di quelle genti, dalle quali con assai minor soldo sarebbe stato molto meglio servito, et conducendole al suo ritorno in Europpa havrebbe potuto vendicarsi et disfarsi di queste. Dal qual consiglio concitato Osman si risolvette a seguitarlo, et si valesse del pretesto del viaggio alla Mecca per tenerlo occulto, et che il visir intesa la risolutione, et considerando l’importanza di essa, si fosse poi sforzato di rimoverlo. Ma, tornando al fatto, il re, che sogiornava nel suo Serraglio, inteso il tumulto et le ricchieste delle militie di tralasciar tal viaggio et dargli le teste del visir et altri che l’avevano persuaso, come era d’animo grande non voleva consentirne alcuna, ma il chislar, et altri che gli erano attorno, et speravano con ciò acquistarli et esimersi dal pericolo, lo indussero a consentir la prima. Et mandò a fargli saper che non si saria più partito. Le militie, non contente di questo, et persistendo in voler le teste richieste, si spinsero più oltre verso il Serraglio, seguitate dal popolo per le strade, che per la causa detta mal sodisfato facilmente s’unì con esse, siché molto presto la moltitudine si fece grandissima, non devenendo però quel giorno ad altra violenza che l’invasione et saccheggio della casa del visir, coza et alcuni altri, che si salvarono con la fuga, consumando il rimanente di quel giorno in reciproche ambasciate da loro al re, et dal re a loro, et sopragiunte della notte et da una gran pioggia si dipartirono et ridussero alle lor stanze. La mattina, sparsa tra esse la voce che il re, in luoco di assentir alla richiesta, havea la notte introdotto nel Serraglio molti azamoglani dei suoi giardini di fuori, et poste artiglierie alle porte et alle muraglie, più che mai concitate presero l’armi et s’aviarono verso il Serraglio eccitando il popolo che chi era buon musulmano s’unisse con esse. Crebbero in un momento più di [***] et sforzate le porte del Serraglio, che fecero poca difesa, entrate dentro, con giuramento prima fatto tra loro di non toccar né asportar cosa alcuna, incontrato nel primo impeto il chislaragà lo fecero in pezzi, et cercando il re, che s’era salvato in un chiosco, né ritrovandolo, cominciò a sentirsi tra loro qualche voce di Mustaffà suo zio, la qual crescendo si misero a investigar di lui, et ad uccider di quei eunucchi che negavano di saper dove fosse. Finalmente con l’inditio d’uno, ritrovatolo in certa cava sotterranea, a guisa di cisterna o pozzo, nella quale Osman nel principio della sollevatione l’havea nascosto, trattolo fuori semivivo per la paura et per la inedia di doi giorni, messagli una delle loro toche in testa, et veste attorno, essendo mezzo nudo, et ricreato con un poco d’acqua da lui ricchiesta, et fattogli alcuni sphai sedia delle lor spale, et così portandolo cominciarono a gridar «Viva Mustaffà nostro imperator » che, veduto d’agli altri, tutti v’accorsero et acclamarono l’istesso; col qual tumulto, conduto fuori di Serraglio et postolo in un caicchio, che prima gli venne alle mani, lo condussero nel Serraglio vecchio, dove habitava la madre; né trovato Osman, sopravenendo la notte, imposero sotto pena della vita al bostangi bassi et alli azamoglani di haver cura che non fuggisse.
È cosa certa et dall’evento assai comprobata che se all’entrar delle militie nel Serraglio si fosse egli lasciato veder, et le havesse compiaciute delle teste che ricercavano, si sariano acquietate senza passar ad altro, poiché non hebbero pensiero di torgli né il regno né la vita. Ma movendolo, o l’indignità d’esser sforzato da suoi schiavi, o il debito di porger li suoi più cari, o il proprio pericolo, o, se è lecito dir, la forza del suo destino, non prese il miglior partito, verificandosi in lui molto bene che quando soprasta la rovina si perde il consiglio. Pensò anco di fugirsene, come vien detto, con più tesoro che potesse in Asia, ma che dal bostangi bassi, a cui dalle militie era stato commesso impedir la sua fuga, fosse dissuaso; fu anco fama che, trovandosi l’armata poco lontana, spedisse a Calil bassà del mare che ritornasse dentro, con dissegno di montar sopra di essa, con li qual doi partiti haveria certamente non solo salvato la vita, ma molto facilmente ricuperato l’Imperio. La sua fortuna et li mali consigli lo fecero abbracciar il peggiore, di uscir egli medesimo di notte con doi o tre de i suoi dal Serraglio, et condursi alla casa dell’agà di giannizzeri dove, fatto chiamar Cusseim Bassà, nella fede del quale grandemente confidava, fu risoluto di far col mezzo di esso agà ogni sforza per acquietarli con offerirgli, per nome suo, non solo le teste che ricercavano, ma cinquanta cecchini per uno di donativo, accrescimento di paghe et ogni maggior sodisfatione. Ma, come all’infirmità pericolose, così alli infortunii humani non giovano più quei rimedi che applicati a debito tempo haveriano grandemente giovato, anzi passata l’opportunità servono più di veleno che di [***].
Alli giannizzeri, passati tanto oltre nell’eccesso, non pareva più modo di correggerlo, o, quel che è l’estremo del male, parendogli fatto bene et degnissimo, non volsero sentir parola di ritrattarlo, ma concitati contro l’agà, chiamandolo traditore, gli tolsero furiosamente la vita, et agitati dal sdegno et dall’impeto come d’ardenti furie, inteso che Osman si trovava in casa di Cusseim, si spinsero verso di essa, et abbattute le porte trucidarono Cusseim mentre procurava di fugire, et cercando Osman, il quale sentito il romore s’era nascosto sotto il soffitto, ivi lo presero, et senza alcun rispetto alla grandezza di tanto prencipe et a sì grave offesa del proprio re, lo condussero alle lor stanze nelle quali poco prima, non riputandolo sicuro nel Serraglio Vecchio, havevano condotto Mustaffà con la madre. Inanzi il quale condotto Osman gli disse «Mustaffà, io ti dimando la vita che ho a te conservata», a cui fu detto che Mustaffà rispondesse quel che nella sua stoldità non par credibile «Conservata me l’hai non per tua volontà ma per quella di Dio, che non t’ha lasciato levarmela», et ordinò che fusse condotto priggione alle Sette Torri. Così, posto in un cocchio, seguitato da gran numero di militie et popolo che ad alta voce et con indegne parole andavano rimproverando le sue passate attioni, fu quivi rinchiuso, esempio veramente grande et memorabile dell’instabilità delle cose humane, che quando sono più eminenti tanto il loro precipitio è maggiore, et non trovano spesso dal sommo all’infimo, et dall’infimo al sommo, dove fermarsi. Osman dal soglio imperiale a una misera prigion; Mustaffà da una misera prigion al soglio imperiale, nel qual assunto, et lasciandosi totalmente reggere dalla madre, et da Daut suo cognato, dechiaratolo subito primo visir, non tardò egli a prender quella risolutione che nei casi estremi fu sempre stimata migliore, né volendo in un tanto eccesso dar alla moltitudine luoco di pentimento, commise con caticumaium del re, incapace di quello che comandava, la morte di Osman, la quale fu subito nell’istessa prigione, alla presenza di Daut, da sei capigì bassì che lo strozzarno eseguita, et estinto nel fior dell’età un potentissimo prencipe et di eccellentissime indole, il qual con manifesta emulatione della gloria de suoi maggiori, haveva già dato principio a travagliar il mondo con le sue armi.
Fu questo veramente un dei maggiori et più memorabili accidenti che nel lungo corso d’anni che regna la Casa Otthomana habbia ella sentito, et dal quale ne son poi derivati tanti altri che tutto il giorno succedono, et hanno ridotto le cose di quell’Imperio in grandissimi disordini che potriano finalmente cagionare la sua rovina, essendosi da una convulsione tale scossi incredibilmente i fondamenti della sua primiera disciplina et grandezza, poiché Mustaffà, inhabile per la sua stolidità a ripararli, et dall’altro canto tenuto dal popolo in concetto di somma bontà et santità, né era potente a reggere, né a depor tanto peso, ma lasciandolo totalmente sopra le spalle della madre, impotente anch’essa, et di poco spirito, et di Daut suo luogotenente, d’ingegno vano et leggiero, veniva il governo dell’Imperio a esser lacerado da una parte dal furor delle militie et dall’altra dall’imbecilità del re et dei ministri, co grande agitazione; onde è incredibile di rappresentar la confusione et li disordini che nel corso di 10 mesi che regnò Mustaffà succedettero, mentre le militie per l’eccesso perpetratto, piene di furor e d’orgoglio, et al cui solo nome tutti tremavano, assolute patrone delle cose, non havevano alcun freno. La madre et Daut gli consentivan tutto, et più di quello che dimandavano poiché, dicchiarandosi esse di non prettender il donativo solito nell’assuntioni dell’imperatori, per haverlo un’altra volta havuto dal medesimo Mustaffà, glielo diedero, et di quando in quando tanti altri estraordinari ancora, col solo fine di tenerseli ben affetti per sostentamento di Mustaffà, che aggiunse alle secrete espilationi della madre et di Daut ch’entravano a lor beneplacito nel Casnà, restò La sua fortuna et li mali consigli lo fecero abbracciar il peggiore, di uscir egli medesimo di notte con doi o tre de i suoi dal Serraglio, et condursi alla casa dell’agà di giannizzeri dove, fatto chiamar Cusseim Bassà, nella fede del quale grandemente confidava, fu risoluto di far col mezzo di esso agà ogni sforza per acquietarli con offerirgli, per nome suo, non solo le teste che ricercavano, ma cinquanta cecchini per uno di donativo, accrescimento di paghe et ogni maggior sodisfatione. Ma, come all’infirmità pericolose, così alli infortunii humani non giovano più quei rimedi che applicati a debito tempo haveriano grandemente giovato, anzi passata l’opportunità servono più di veleno che di [***].
Alli giannizzeri, passati tanto oltre nell’eccesso, non pareva più modo di correggerlo, o, quel che è l’estremo del male, parendogli fatto bene et degnissimo, non volsero sentir parola di ritrattarlo, ma concitati contro l’agà, chiamandolo traditore, gli tolsero furiosamente la vita, et agitati dal sdegno et dall’impeto come d’ardenti furie, inteso che Osman si trovava in casa di Cusseim, si spinsero verso di essa, et abbattute le porte trucidarono Cusseim mentre procurava di fugire, et cercando Osman, il quale sentito il romore s’era nascosto sotto il soffitto, ivi lo presero, et senza alcun rispetto alla grandezza di tanto prencipe et a sì grave offesa del proprio re, lo condussero alle lor stanze nelle quali poco prima, non riputandolo sicuro nel Serraglio Vecchio, havevano condotto Mustaffà con la madre. Inanzi il quale condotto Osman gli disse «Mustaffà, io ti dimando la vita che ho a te conservata», a cui fu detto che Mustaffà rispondesse quel che nella sua stoldità non par credibile «Conservata me l’hai non per tua volontà ma per quella di Dio, che non t’ha lasciato levarmela», et ordinò che fusse condotto priggione alle Sette Torri. Così, posto in un cocchio, seguitato da gran numero di militie et popolo che ad alta voce et con indegne parole andavano rimproverando le sue passate attioni, fu quivi rinchiuso, esempio veramente grande et memorabile dell’instabilità delle cose humane, che quando sono più eminenti tanto il loro precipitio è maggiore, et non trovano spesso dal sommo all’infimo, et dall’infimo al sommo, dove fermarsi. Osman dal soglio imperiale a una misera prigion; Mustaffà da una misera prigion al soglio imperiale, nel qual assunto, et lasciandosi totalmente reggere dalla madre, et da Daut suo cognato, dechiaratolo subito primo visir, non tardò egli a prender quella risolutione che nei casi estremi fu sempre stimata migliore, né volendo in un tanto eccesso dar alla moltitudine luoco di pentimento, commise con caticumaium del re, incapace di quello che comandava, la morte di Osman, la quale fu subito nell’istessa prigione, alla presenza di Daut, da sei capigì bassì che lo strozzarno eseguita, et estinto nel fior dell’età un potentissimo prencipe et di eccellentissime indole, il qual con manifesta emulatione della gloria de suoi maggiori, haveva già dato principio a travagliar il mondo con le sue armi.
Fu questo veramente un dei maggiori et più memorabili accidenti che nel lungo corso d’anni che regna la Casa Otthomana habbia ella sentito, et dal quale ne son poi derivati tanti altri che tutto il giorno succedono, et hanno ridotto le cose di quell’Imperio in grandissimi disordini che potriano finalmente cagionare la sua rovina, essendosi da una convulsione tale scossi incredibilmente i fondamenti della sua primiera disciplina et grandezza, poiché Mustaffà, inhabile per la sua stolidità a ripararli, et dall’altro canto tenuto dal popolo in concetto di somma bontà et santità, né era potente a reggere, né a depor tanto peso, ma lasciandolo totalmente sopra le spalle della madre, impotente anch’essa, et di poco spirito, et di Daut suo luogotenente, d’ingegno vano et leggiero, veniva il governo dell’Imperio a esser lacerado da una parte dal furor delle militie et dall’altra dall’imbecilità del re et dei ministri, co grande agitazione; onde è incredibile di rappresentar la confusione et li disordini che nel corso di 10 mesi che regnò Mustaffà succedettero, mentre le militie per l’eccesso perpetratto, piene di furor e d’orgoglio, et al cui solo nome tutti tremavano, assolute patrone delle cose, non havevano alcun freno. La madre et Daut gli consentivan tutto, et più di quello che dimandavano poiché, dicchiarandosi esse di non prettender il donativo solito nell’assuntioni dell’imperatori, per haverlo un’altra volta havuto dal medesimo Mustaffà, glielo diedero, et di quando in quando tanti altri estraordinari ancora, col solo fine di tenerseli ben affetti per sostentamento di Mustaffà, che aggiunse alle secrete espilationi della madre et di Daut ch’entravano a lor beneplacito nel Casnà, restò esso in breve del tutto escarnito et esausto. Si commettevano del continuo nella città importanti eccessi; non erano sicure le persone per le strade et nelle case; ogni cosa esposta alla lor violentia et avaritia; la religione disprezzata, occupate da sphai l’entrate delle moschee, che in molto numero restavan chiuse; la giustitia di quel governo sempre corrotta, all’hora conculcata affatto, et quei della legge, a cui è raccomandata come impulsori della morte di Osman, in universal odio e dispreggio; li ministri più savi et prudenti stavano ritirati per timor di sé medesimi; li capi di esse militie tutti intenti a blandirle; tra esse medesime gran diffidenze e sospetti; il popolo pien di terror et di spavento; voti li mercati publici; carestia de viveri et di negotio estraordinaria; la liga dell’oro e dell’argento falsificata; le monete montate a eccessivo prezzo; la peste in colmo, et finalmente tutte le nostre cose ridotte a una confusion et caos molto grande.
Né in miglior stato si trovavan le cose di fuori; dire gl’animi dei popoli per il caso d’Osman sommamente commossi si accedevano d’ardente odio contra le militie, et per li disordini del governo, d’altretanto dispreggio; li ordini del re et della Porta non havevano alcun effetto; l’obedienza da per tutto perduta; li bassà inviati dalla Porta al governo delle provincie non erano dai popoli o dai precessori admessi; li Casnà delle medesime provincie o no si mandavano alla Porta, o una poca parte solamente. In molte parti si sentivano moti et sollevationi, et era di maniera dentro et fuori alterata la faccia dell’Imperio, che per pubblica voce et confessione de Turchi medesimi, fondate in antiche predestinzioni et novi prodigii, s’avvicinava la sua rovina. Ciò non ostante si mostravano le militie fermissime nel mantenere nell’Imperio Mustaffà, principal cagione di tanti mali. Ma per lavarsi la macchia del sangue d’Osman, abhorita da tutti, et anco da lor medesimi, addossandola a Daut, se gli sollevarono contra, presa occasione ch’egli per assicurar l’Imperio et Mustaffà havesse macchinato contra la vita di suo nepote Amurat, moderno imperator, sotto finta che fosse chiamato dal zio a Scutari, onde da un azamoglan mosso a pietà del figliolo, restò ucciso il capiagà che lo conduceva di concerto con Daut, il quale perciò, temendo il furor delle militie, allucinato da Cusseim, tornato di quei giorni dal governo del Cairo, huomo astu o et ardito, si risolse ceder a lui il governo, et lo fece dal re decchiarar primo visir. Costui, di natura violentissima, tutto intento a guadagnar, con gran profusion d’oro et altretanta licenza la volontà delle militie si rendevano sempre più indomite, et li disordini maggiori; et un giorno, sollevatesi contra lui medesimo per haver con macchinata inventione tentato levar di vita l’agà di giannizzeri, a pena si potè sotrar con la fuga, né valse per rimedio l’havergli sostituito Mustaffà bassà, di natura placida et quieta, come si lascia un contrario con l’altro; perché costui, tanto perduto nell’avaritia quanto l’altro nell’ambitione, fu causa di maggior danno per haver per denari creato tanto numero di giannizzeri, ch’ha poi evacuato il Casnà del Gran Signore, et resa tanto maggior la loro insolenza; perciò anch’egli presto depulso. Fu per ultimo rimedio dato il governo a Mehemet Giorgì, con universale speranza che nella sua invecchiata prudenza dovesse trovar qualche quiete; ma ben tosto si conobbe che niuna prudenza era bastante a fermar le cose tanto trascorse poiché tutto quello che egli, unito col muftì, Cusseim effendi cadileschier della Grecia, et Calil Bassà, le più savie teste del governo, procurasse farlo, furono molto presto il muftì, egli et Calil da una sollevatione di militie corrotte dal predetto Cusseim abbattuti et espulsi, et egli ritornato in primo grado. Et poco prima fatte essi medesimi pagar il fio con la morte a Daut, di quella di Osman, nella quale successe cosa degna di consideratione della divina vendetta contra li recigidii, benché infedeli, che condotto Daul nel cortile del Divano al supplitio, nel punto dell’essecutione fu da non so che voce tra le militie impedito, et condotto alle Sette Torri, dove poi il giorno appresso gli fu levata la vita nell’istessa priggione che egli l’haveva levata al suo re.
Con queste fluttuationi di perpetui moti et agitationi, andavano manifestamente periclitando le cose di quell’Imperio, et maggiormente sotto il reasunto governo di Cusseim, il quale, col medesimo fine del primo, di tenersi con la profusion et con la licenza ben affette le militie, et assicurato Mustaffà nell’Imperio, per poter egli assolutamente regnar, haveva si può dir mutata l’ordinaria forma del governo, ridotto il Divano a doi o tre visiri, et tutti li negotii et auttorità in sé solo, deposto il vecchio muftì, cacciati in esilio Giorgì et Calil, tolto il regno a Giò Girà re dei Tartari et datolo a Mehemet suo cugino, la sede della Chiesa greca al patriarca Cirillo cretense, et buon suddito della Repubblica, et confinatolo a Rhodi, vesando col suo violento et torbido ingegno ogn’uno, né perdonando all’istessi proffessori della legge, stati sempre inviolabili, siché un giorno fatto per picciola cagione batter fortemente un di loro, si sollevarono tutti, di maniera che levato dalla moschea dove si conservava il stendardo del loro Proffetta Mehemet, et portandolo per la città con alta voce che chi era buon mussulmano lo seguitassero, concitorno contra il visir gran sollevamento, il cui fine era non tanto la sua depositione, quanto quella del re. Ma il visir, spinto in un subito contra di loro un buon numero di azamoglani armati, disfece la sollevatione, et guadagnati li capi con denari, et li altri passati in Asia, andavano con la loro auttorità concitando i popoli contra il governo, et mostrando che dalla stoltitia del re nascevano tutti li disordini, et nasceva finalmente la rovina, et che sotto di lui né orationi, né contratti, né giuditii, né alcuna cosa era valida, cosa che impressa negl’animi dei popoli asiatici, pronti alle sollevationi, diedero gran fomento alla ribellion d’Abbassà in Arzirum, et a quella di Becchir in Babilonia, che furono le vere cagioni della depositione di Mustaffà, et assuntione del presente sultan Amorat. Perché pervenuta a notitia delle militie la fama del stratio grande che Abbasa, il qual s’era mosso con seguito di 30 mille bravi soldati verso Costantinopoli, sotto titolo di vendicar la morte di sultan Osman, andava facendo di giannizzeri tumultuavano alla Porta, ed instavano con grande ardore il rimedio, et d’esser condotti contra di esso; da che il loro agà, huomo savio, et gl’altri che per la salute dell’Imperio bramavano la mutatione, presero occasione di persuaderla ai giannizzeri col mostrargli non si poteva soddisfar alla loro istanza senza ordine del re, né questo ottenersi per la sua incapacità. La forza dell’interesse et della vendetta potendo più in essi che qual si voglia altro rispetto, l’indusse a conscentirla, onde fu subito deposto Cusseim, nonostante ogni suo sforzo fatto con giannizzeri in contrario, anco con una arditissima adulatione per tentar se con essa potesse rimuoverli, di ricusar di render il sigillo al re et offerirlo a loro. In suo luoco fu eletto Ali, per opera del quale, et di Bairan agà di giannizzeri, con l’auttorità del muftì et cadileschieri, fu poco doppo li 10 settembre 1623 deposto Mustaffà et assunto Amurat suo nepote, per via di spuntanea cessione et rinontia, con intervento di tutte le militie, senza però che Mutaffà comparisse, ma portando li cadileschieri l’assenso et la parola in suo nome; et formatone cozetto per colorir la cosa, non essendo Mustaffà capace di quello faceva, et nell’istesso punto fu alla presenza delle medesime militie nel cortile del Divano condotto fuori Amorat il quale, applaudito da essi, et da tutti. Fu poi il giorno appresso, non volendo la chiosè sua madre, donna molto avveduta et savia, dar punto di tempo alli accidenti et alli tumulti, inaugurato et coronato imperator, che non si fa con maggior cerimonia o sollennità che coll’uscita sua per mare in caicchio a una moschea d’Ivarseri, sobborgo di Costantinopoli, dove alla sepoltura d’un santone fatta l’oratione et cintagli dal muftì la spada, entra poi nella città a cavallo seguitato da tutti i grandi et dalle militie per la porta d’Andrianopoli al suo Serraglio, che è tutta la lunghezza d’essa, con le acclamationi del popolo et streppito d’artellarie; et per tre notte con illuminationi et fuochi, et simil solennità, molto più semplici et positive de quelle che fanno in Christianità per un picciolo prencipe in tale occasione.
Né devo tacer come di passaggio essersi in quella sollenità osservato li adobamenti della persona reale et di suoi cavalli non così ricchi et superbi come fu solito dei suoi antecessori, evidente segno dell’espilationi fatte anco nel Casnà delle gioie, come in quello dei denari, li quali nella medesima occasione apparvero tanto più dalle difficoltà grandissime di far il consueto donativo alle militie, che li costrinse abbassar assai la liga dell’oro, fonder l’argenterie del Serraglio, vender li rami di lunghissimo tempo riserbati per l’estremi bisogni, et sino a ricercar con somma instanza ad imprestido dalli ambasciatori de prencipi christiani 30 mille cecchini.
Dalla mutatione del prencipe era nata in tutti gran speranza della mutatione anco del stato delle cose, ma ben presto si conobbe che la tenera età di Amurat non era bastante a correggere li disordini causati dalla stolidità di Mustaffà, ciascuno havea l’occhio alla madre, ma la imbecillità del sesso in donna, benché savia, non suppliva a tanto bisogno. Continuavano tuttavia li disordini et l’insolenze delle militie. Il re pretendeva che si trasferissero a Babilonia per preservarle dal Persiano, che con essercito di 60 mille s’era mosso per occuparla sulla speranza della ribellione di Becchir; li giannizzeri all’incontro volevano esser condotti contra Abbasà, dechiarato nemico del loro ordine, il qual pervenuto con 30 mille soldati ad Angori, dieci giornate da Costantinopoli, occupata la città, teneva assediato il castello, con dissegno di passarsene poi a Costantinopoli per proseguir contra di essi la dissegnata vendetta, et s’erano impressi che tutto ciò fosse di concerto et assenso del re et dei ministri, col medesimo fine di Osman di distrugerli; et si sentivano delle voci che da medesimi disegni minacciavano li medesimi accidenti, li quali haverian dato da pensar assai quando la loro temerietà dal timor dell’armi vicine d’Abasà non fosse stata repressa; onde è certissimo haver la sua mossa fatto alle cose del re gran servitio, il che, conosciuto molto ben dalla madre et dai ministri, le provisioni contra di lui andavano molto lente, né al bassà Cigala, speditovi con poche militie, più per apparenza che per altro, et fermatosi in Bursia, si somministravan li necessarii sussidii, et premevano di gran lunga più gl’avisi di Babilonia assediata dal Persiano, a cui Becchir trattava di renderla, vista la debolezza di Caffis, che partitosi con poco apparato di Diarbecchir per soccorrerla et per tener in fede Becchir non haveva potuto far né l’uno né l’altro, onde era voce che presto poi restò verificata esser ella caduta in mano del Persiano; cosa che, premendo grandemente ad Amorat per la sua molta importanza et per li mali auspicii dell’ingresso del suo Imperio con sì grave perdita, s’applicò tutto l’animo alla sua ricuperatione, et si bandì in Costantinopoli la guerra contra il Persiano. Né le cose alla Porta passavano con miglior quiete poiché, non potendo le militie contenersi dai soliti tumulti, sedutte con denari da Mehemet destinato bassà di Buda, macchinavano una sollevatione per far deponer Ali primo visir et elegger lui in suo luoco. Il re, per consiglio della madre appreso da sultan Acmet padre della Maestà Sua, il quale con rigorosi consigli nel principio del suo regno contra i grandi lo mantenne libero da tali macchinationi, gli fece mozzar il capo, et non molto doppo anco all’istesso Ali, per havergli celati et diminuiti li avisi di Babilonia, con che, et con haver subito riposto il vecchio muftì al suo primo grado, rivocati dall’esilio Giorgì et Calil, richiamato dal Cairo il Chislaragà cacciato da Osman, eletto primo visir Cerchis Mehemet bassà, huomo vecchio et integro, et caimecan Giorgì, andava formando negl’animi di tutti concetto di prencipe severo et savio, et di gran riuscita.
È sultan Amurat d’età di [***] anni, dotato dalla natura di preclare dotti della persona ben fatta et disposta, di faccia così venusta et gentile che non rappresenta punto l’effigie delli imperatori otthomani suoi progenitori, nel volto dei quali vi regnasse l’orgoglio et il rigor, dove in lui negl’occhi et nell’aspetto riluce una dolcezza et benignità grande, con la quale, et con portamento quando esce in pubblico verso il popolo cortese et humano, s’affettiona sommamente, gl’animi d’ogn’uno memori dell’orgoglio d’Osman et della stupidità di Mustaffà. A questi eccellenti doni del corpo corrispondono, per quanto sin hora si scopre, quelli dell’animo, inclinato pur alla clemenza et mansuetudine che alla severità, alla quale se alcuna volta ha convenuto piegar è stato più per li savii consigli della madre, che per instinto suo proprio; si dimostra particolarmente lontano dall’orgoglio, pertinacia, avaritia, et altri vitii di sultan Osman, che, seben nei doni et nelle spese non procede con quella larghezza et liberalità che fu propria de suoi maggiori, et converria alla sua età, viene attribuito a prudenza et non ad avaritia, per haver trovato li Casnà esausti, et le spese tanto accresciute che la madre, la quale in tempo di sultan Acmet suo marito soleva esser profusissima, hora va anch’essa sopra modo ristretta. Proffessa sopra tutto governarsi non di sua testa, come faceva Osman, ma col consiglio de suoi ministri, et non del solo primo visir come era l’uso de suoi maggiori, ma per via di consulta tra li più principali, abbracciando le loro risolutioni; et non è dubbio che continuando in questo instituto sarà la Maestà Sua molto meglio consigliata e servita. Si teme però che il timor del caso del frattello et la prudenza della madre, lo facino caminar con tal riserva insolita ai prencipi ottomani, la cui sola volontà è la vera et suprema legge, et che scosso con gl’anni il predetto timor et rispetto verso la madre, habbia anch’egli a dipender da sé solo. Dimostra genio et applicatione ai negotii maggiore de suoi anni, intervendo assiduamene alli arz che si tengono due giorni della settimana, nei quali li visiri tutti insieme et altri principali ministri, sono admessi alla presenza del prencipe; gli danno conto delle occorrenze dei loro carichi, acciò comandi la sua volontà, il che viene dalla Maestà Sua fatto con prontezza insolita, usando la medesima nelli talchis, che negl’altri giorni gli vengono mandati dentro dal visir et hanno bisogno del suo caticumaium, che un ristretto brevissimo di tre o quattro parole di proprio suo pugno, et dove li suoi precessori erano soliti, o per maggior gravità, o divertiti dai piaceri, differirli molti giorni, egli li spedisce quasi subito con grande universale sodisfattione; da che s’arguisce applicatione ai negotii più che ai piaceri et animo più inclinato alla malanconia et ritiratezza che ad altro. Esce però molto spesso, et quasi ogni venerdì, giorno loro festivo alla moschea, facendosi veder dal popolo et ricevendo le suppliche che gli vengono porte, et alle volte anco in giorni estraordinarii, et senza l’assistenza dei visiri, per veder improvvisamente il stato dell’abbundanza della città, et tener chi governa in stima et offitio.
Li suoi essercitii sono quali conviensi alla sua grandezza et età, il maneggio de cavalli, dell’armi, le caccie, li giardini et qualche studio di lettere ancora tutti con molta misura et moderatione; né verso le donne sin hora si scopre alcun eccesso. In doi cose ha palesato maggior sentimento che in tutte l’altre, nella perdita di Babilonia et nell’haver alle volte convenuto ceder all’ingiuste voglie delle militie, particolarmente nella morte di Giorgì; et come nella ricuperatione di quella città si dimostra ardentissimo, così si può creder che anco in questa sarebbe il medesimo quando il stato delle cose et l’essempio del fratello non lo detenesse. Ma dopo la severità usata contra li auttori della detta morte, per consiglio et opera del capitan bassà, che indusse li giannizzeri dell’armata a trasferirsi a Costantinopoli et ricercar il loro castigo, ha preso assai maggior animo, accresciuta affettione et fede verso il capitan et scematela a gl’altri ministri da quali, essendo stati nella sollevatione contra Giorgì, et in altre persuaso con l’esempio del fratello a sodisfar le militie, non è restato senza sospetto che si valessero di tal timore come di freno per reggerlo a lor modo.
Dalle predette conditioni di questo giovine prencipe, si può non senza fondata ragion concludere che, pervenuto a maggior età, sia per corrispondere all’indole et genio, ch’hora dimostra buono et moderato, et dato più alla quiete che all’armi, né habbia a seminar guerre di guerre, come certamente avrebbe fatto Osman, ma più tosto a conservar l’amicitia et la pace con li suoi antichi amici, et particolarmente con questa Serenissima Repubblica, come dirò a più proprio luoco.
Ha la Maestà Sua tre altri fratelli, tutti figli della chiosè sua madre, la quale, di nation circassa comperata da un giannizzero, picciola fanciulla et cresciuta in molta bellezza et virtù, fu da esso donata a sultan Acmet, la cui benevolenza et gratia seppe con la sua prudenza di maniera acquistar che divenuta sua moglie et madre di molti figli, partecipava anco con i suoi consigli negli affari grandi, et doppo la morte di Acmet seppe con la medesima prudenza evitar l’insidie d’Osman che, primogenito d’Acmat, ma d’altra moglie, herede dell’Imperio, ma per ultima dispositione del padre prepostogli il fratello Mustaffà, giunto che vi fu per la depositione di questo et grandemente commosso per la passata privatione, conoscendosi poco grato alle militie per [***] della madre chiosè et temendo del fratello Mehemet secondo genito di nobilissima indole et espettatione, et d’età poco minor di lui, volendosene assicurar, lo fece al suo partir per la guerra di Polonia levar di vita, et fu in gran pensiero di far il medesimo a lei ancora; anzi si sparse pubblicamente la fama dell’effettuatione, per assicurarsi anco del presente sultan Amorat dal quale, sebene in età molto tenera, per la sagacità della madre non gli pareva poter star sicuro, la quale con la medesima prudenza accompagnata dalla forza dell’oro, con quei che potevano appresso Osman, seppe preservar sé stessa et il figliolo dall’eminente pericolo, et con poi la depositione di Mustaffà, seguita coi suoi consigli, portalo all’Imperio. Da che nasce il rispetto grande che il figliolo gli porta, et il concetto in tutti della sua prudenza, et d’un espresso favor del Signor Dio verso di esso, che non potendo come terzogenito secondo l’instituto degl’Otthomani aspettar altro che una violenta morte, estinti li due maggiori fratelli nel fiore dei lor anni, sia egli con tanta fortuna pervenuto all’Imperio in che, come la prudenza della madre ha havuto gran parte, così si scopre assai chiaro la medesima nel maneggio d’essa, diportandosi in modo che, sebene per dipender il figliolo dai suoi consigli vi tiene somma autorità, la occulta per ripetto delle militie; si che di lei non si parla come se non tenesse alcuna, et fugendo l’apparenza conserva l’auttorità senza pericolo; et nondimeno havendo il re in gratification sua, et delle sorelle, promosso li suoi quattro cognati ai maggiori carichi, et il capitan bassà creatura di lei, li quali dipendono tutti dalla sua volontà, vengono anco tutte le risolutioni importanti a dipender dalla medesima.
Sarà però ottimo consiglio a tenersela ben affetta, né difficile da conseguir essendogli sin dal tempo del marito nota l’antica amicitia di questa Serenissima Repubblica, et la dimostratione di stima fatta in diverse occasioni verso di lei, et renovata con sue proprie lettere nell’assuntione del figliolo, le quali da me fattegli presentar con conforme ufficio, tutto che per evitar spesa non accompagnate da presenti, altre volte in simili occasion usato, furono da lei con grato ufficio ricevute, et nell’occasion dimostrata buona volontà, confirmata poi anco dall’eccellentissimo ambasciator Contarini col presente portatogli a nome della Serenità Vostra, et coi suoi prudenti ufficii.
Oltre li tre fratelli del re, rimane tuttavia in vita Mustaffà suo zio, rinchiuso in alcune stanze del Serraglio nel suo romito et solitario instituto, et col suo primo humor, senza conversation d’alcuno, nella cui historia tanto nota, et tocca da me di sopra, non occorre d’entrar; basterà sol dir dalla sua preservatione esser proceduti tanti mali all’Imperio turchesco che per opinion de lor medesimi pare esser stata permessa da espressa volontà del Signor Dio per loro castigo, onde non habbia potuto mai sultan Acmat suo fratello, tutto che più volte lo deliberasse, conforme all’instituto degl’Ottomani, risolversi a levarlo di vita, anzi contra tutte le regole di natura et di stato, antepostolo alla sua morte nella succession dell’Imperio a Osman suo figliolo il quale, ciò nonostante, et quando anco nella sollevatione contra di lui delle militie, haverebbe con la sua morte potuto conservar a sé stesso il regno et la vita, non si sia risolto di farlo, né meno dal presente sultan Amorat documentato del suo pericolo; dal che si conferma nel volgo il concetto della divina volontà in contrario, et che quante volte dalli predetti principi sia stata la sua morte tentata da horribili visioni, et spaventati siano stati rimossi; cosa che, aggiunta al dupplicato riffiuto del regno, et al tenore della sua vita, lo fa reputar per santo, conforme all’opinion de Turchi che gl’huomini pazzi et mentecatti che commettono pubblicamente delle assurdità et inettie, stimano dispreggiatori del mondo et santi.
Ho detto che tutto il peso del governo di tanto Imperio è riposto sopra le spalle del primo visir il quale, esercitandolo con suprema auttorità, e doppo il re il solo et assoluto arbitro et direttor di tutte le cose, vicegerente di Sua Maestà, a cui sola et non ad altri ha da render conto. A lui s’indrizzano gl’ambasciatori de principi nei lor negotii, il cui buono o cattivo esito dipendono in gran parte dalla sua buona o contraria dispositione; molto studio devono poner i baili della Serenità Vostra in guadagnarselo, in che ho io convenuto poner grandissimo perché essendo nel corso del mio bailaggio per le continue sollevationi delle militie et sovversione di tutte le cose, seguite frequentissime mutationi de’ primi visiri, che nel spatio di sette anni dicissette se ne son fatti, forse più che in 50 per l’adietro, quando mi trovavo haver fatto acquisto della sua volontà, resolo informato dei negotii et ben disposto, veniva deposto et fatto masul, et assuntone un nuovo, per il più di genio et pensieri contrari all’altro, nova et dupplicata industria mi voleva per ben disporlo, et non sì tosto fattolo altro succedeva in suo luoco con una perpetua fluttatione di governo, et di me medesimo in addattarmi per servitio della Serenità Vostra a nature e cervelli tanto vari d’affetti et di massime repugnanti, se ben tutti nella superbia, avaritia et ignoranza molto conformi, et con continua rinovatione dei travagli sotto gl’altri sopiti, che nella mutatione de i visiri da gl’avari et prettensori ben spesso risorgono, et non di meno di tanto numero et varietà non è stato alcuno con cui, per gratia del Signor Dio, non habbia superato negotii difficilissimi in avantaggio della Serenità Vostra, et con sua grande riputatione.
Al mio arrivo alla Porta trovai in quel grado Ali, nativo da Stanchioi, isola dell’Arcipelago, quello che per la prettensione della sua galeotta, già sconfitta dalle nostre al Paxo, professò sempre un’acerbissimo odio a questa Repubbica, et lo dimostrò con la morte del dragoman Borisi, et con la sentenza dei cadileschieri a favor dei Bosinesi contra l’illustrissimo signor mio precessor, costringendoli a reintegrarli intieramente di tutte le lor prettensioni de capitali tolti all’armata spagnola con la sorpresa delle galee della mercantia, per la somma di cento e più mille taleri, et con altri gravissimi preiuditii perché, dubitando egli che scoprendosi a un tratto tutti li prettensori bossinesi, che erano in gran numero, et per la somma di quasi 300 mille taleri, la Serenità Vostra si risolvesse correr più tosto qualunque pericolo che soccomber a una tanto spesa. Fece da principio mostrarsi se non pochi, solo per la somma di cento mille taleri, come ho predetto, sicuro che seguita per via di giuditio la reintegratione di questi, sarebbe la Serenità Vostra per necessità costretta a far il medesimo con gl’altri, per tutta la summa. Il che, senza dubbio, gli sarebbe riuscito, o entrata la Repubblica in anfratti et pericoli gravissimi per la pessima natura di quell’huomo, et del re medesimo, che cupido di guerra si reggeva coi suoi consigli, se io, esseguendo li prudentissimi ordini di lei, non havessi divertito con gran diligenza et vantaggio l’uno et l’altro perché, havendo al mio arrivo alla Porta trovato il colpo et il preiuditio già fatto, data la sentenza dei cadileschieri, la morte al Borissi, et fatti pagare li primi bossinesi di quanto prettendevano a ducato per ducato, fui con tanto maggior impeto assalito da gl’altri per la somma di quasi duecento mille taleri, quando il loro maggior numero et il caso seguito li mettevano al sicuro. Della qual grande inaspettata novità, datone io conto alla Serenità Vostra, et ricevuto da lei la risposta che volendo in ogni modo liberarsi da tal travaglio dovessi, con quel maggior vantaggio che potessi, sodisfarli et terminarlo, operai di maniera per via di negotio et trattationi coll’istesso Ali che, non ostante la sua mala volontà, et che la recente sentenza contra l’illustrissimo signor mio precessor, et il caso seguito dell’intiero pagamento da lui fatto ai primi, mi costringesse a far il medesimo con questi, che erano nell’istessa causa et ragione, et con produttione di bollette, polizze di carico et di testimonii, con li quali soli si regolano li giuditii turcheschi, apparissero liquidi creditori di cento ottantta sei mille taleri, et coll’essempio dei primi ne prettendevano con sommo ardor la totale reintegratione. Operai dico di maniera che, non ostante li pregiuditii et contrari predetti, li feci contentar di 70 mille, li quali non potendo io trovar a cambio da nostri mercanti esausti di denari, mi valsi di tal difficoltà per far alla Serenità Vostra un altro non picciol civancio, che presa in luoco di contanti da essi nostri mercanti tanta pannina di seta et lana, et datala in pagamento a Bosinesi mi vantaggiai tanto nel prezzo con gl’uni et con gl’altri che, come distintamente appar nei miei conti, avanzai alla Serenità Vostra per questa sola ragione cinque mille e più taleri, con che chiaramente appar che havendo io con sessantacinque mille fatto contentar li secondi Bosinesi creditori di cento ottanta sie mille, non ostante che i lor compagni creditori di cento mille fossero stati prima del mio arrivo reintegrati a ducato per ducato di tutto il lor credito, essersi avanzato alla Serenità Vostra la somma di cento vinti un mille taleri, con gran publico vantaggio, et agiustato un negotio che poteva condur la Republica in gravi travagli. Ma qui non si fermò la cosa, né il stimolo di quell’ardente zelo dell’avantaggio et della dignità publica, che è stata la sola principal mira delle mie operationi in tutto il corso del mio bailaggio, perché non potendosi con tutto il predetto vantaggio col qual fu da me terminato il negotio aquietar il mio animo, né patir lo esborso di tanto publico denaro, ma travagliato notte e giorno assai più che dall’infirmità, dalla quale havendo in obedienza del commandamento di Vostra Serenità fatto il viaggio con somma diligenza, et nell’ardor della più fervida stagione mi trovavo con tutti li miei appresso combattuto dico da una parte dall’efficaci commissioni di questo eccellentissimo Senato di accellerar la conclusione dell’affar, et dall’altra dal zelo del publico risparmio, andavo del continuo pensando et ripensando tra me stesso al modo con che si venisse a conseguir l’uno et l’altro col render all’hora la Repubblica libera da quel travaglio, et a suo tempo reintegrata da quel dispendio et favorì di maniera il Signor Dio questa mia rettissima intentione, che avalorando colla sua gratia la debolezza del mio ingegno, mi fece escogitar il modo mediante il quale, come all’hora la Repubblica con intiera sua dignità restò libera da travaglio, così poco doppo restò anco pienamente reintegrata di quel dispendio, di quello dico dei sessanta cinque mille taleri passato per le mie mani perché, havuto io in quel agiustamento principalmente la mira alla dignità della Serenità Vostra, et ad abolir l’esempio di tali rifacimenti per le pessime sue conseguenze, non volsi mai che in esso apparisse il nome della Serenità Vostra né del suo bailo, ma mi valsi di quello di tre nostri mercanti, in che havendo non solo l’occhio al rispetto della dignità et delle conseguenze, ma a quello della reintegratione della spesa, come ho predetto. Et prevedendo io sin dall’hora esser al tutto necessario che fra breve tempo seguisse la restitutione delle galee et mercantie rapite da Spagnoli, occultato col necessario avedimento a Bosinesi il detto rispetto, li indussi alla formatione d’un cozetto tra i predetti nostri mercanti et loro, nel qual apparendo la compreda fatta da quelli per settanta mille taleri di tutte le prettension de questi sopra le mercantie de le dette galee, et la totale cessione d’essi da Bosinesi a detti nostri mercanti qualunque volta si ricuperssero. Da tale accordo e contratto da me escogitato, n’è riuscito il fine et perfetto da me preteso della reintegratione al pubblico di tutta la spesa predetta, perché, fatta doi anni doppo da Spagnoli la restitutione delle galee et di parte delle mercantie, et deliberata da questo eccellentissimo Senato la ripartita a soldo per lira tra tutti l’interessati in esse, fu in virtù del detto contratto, et della liber renoncia ch’io feci far nel medesimo tempo da detti nostri mercanti alla Serenità Vostra delle lor ragioni et prettensioni nelle dette mercantie, aggiunto nella parte, che l’offitio dell’illustrissimi signori Cinque Savi, come rappresentanti li tre mercanti venetiani che a Costantinopoli hanno sodisfatto li turchi bosinesi delle lor prettensioni in dette robbe, entrassero in caratti per la portione come di sopra spetterebbe ad essi turchi bossinesi se non fossero stati sodisfatti. Per la qual ripartita, essendo toccato alla Serenità Vostra la somma di ducati settanta nove mille ottocento settanta cinque, con altri civanci da ciò dipendenti, non solo s’è rimborsata, ma vantaggiata di quella di sessanta cinque mille taleri da me sborsati a bosinesi, come per li miei conti, et per quelli della predetta ripartita si vede chiaramente si vede. Da che medesimamente si comprende con quanto zelo, industria et vantaggio publico sia stato da me maneggiato et concluso quel fastidiosissimo negotio, non ostante tante contrarietà che militavano in esso, ma sopratutto per l’estremo preiuditio che mi faceva il caso seguito trovato al mio arrivo, colla sentenza dei cadileschieri, et col total pagamento a ducato per ducato fatto nei primi bossinesi, per conto del qual meno è parso alla solita religione di questo eccellentissimo Senato poter con salvezza della sua incontaminata giustitia reintegrarsi di cosa alcuna. Che (et sia detto con ogni maggior riverenza, et senza minima giattanza, ma per solo et semplice zelo del pubblico servitio in altre future occorrenze) se al mio arrivo alla Porta havessi trovato questo negotio vergine et non tanto pregiudicato dalle cose predette seguite prima, forse che il Signor Dio m’haverebbe fatto la gratia d’agiustarlo tutto così nei primi come nei secondi, senza alcuna o pochissima spesa; et replico, et non lo dico per giattanza, ma per l’esperienza s’è veduta di tanti altri travaglissimi negotii et prettensioni, che in così lungo bailaggio et in tempi tanto più turbolenti et pericolosi di quello, et con molto maggior fondamento di ragione et di giustitia mi son stati promossi, che tutti dico sono stati da me sopiti con gran publica dignità, et senza alcuna minima spesa, havendo non solo nel bailaggio ma in tutte le altre ambascerie d’Inghilterra, Francia et Germania, nelle quali nel corso di 23 anni l’ho servita, havuto di maniera la mira al risparmio del denaro publico, che in tanto spatio di tempo et occasioni che sono nate et fuori delle cose communi et ordinarie, non ho speso né dato al publico occasione di spesa pur d’un bicchiero, et divertitele tutte. Et mi sovviene che nell’ambasceria di Germania, parendo alla Serenità Vostra esser tenuta alle buone operationi fatte dal signor cardinale Gliselio a prò dei suoi interessi nelle guerre passate tra lei e la casa d’Austria et nella conclusione della pace, et volendo con qualche degno regallo riconoscerle, et più d’una volta eccitatomi ad avvisarla con che si potesse farlo, parendo a me che si poteva far di meno, ne divertì la spesa che dalla sola munificenza della Serenità Vostra fu promossa; et il medesimo so d’haver più volte fatto nel bailaggio che, havendomi lei molto ben conscia dell’impossibilità di superar con turchi li negotii travagliosi senza spesa, datomi in varie occasioni commissioni di farne, quando di doi et quando di mille taleri, io spendendo in luoco del denaro la fatica et l’industria, l’ho superati senza spesa alcuna, havendomi sempre in tanti travagliosi negotii proposto per massima indubitata et procurato anco d’imprimerla nei nostri dragomani, che nel superarli senza spesa consistesse il sostentamento della publica dignità et il merito di chi la serve in quel carico, come appunto mi è successo.
Ma per ripigliar il filo del mio proposito circa le difficoltà per la mutatione di tanti visiri, et il buon incontro che ho havuto di superarli, oltre il negotio di Bosinesi ne spuntai nel medesimo tempo dall’istesso Ali un altro di molto maggior rilievo et conseguenze, perché riflettendo la prudenza dell’eccellentissimo Senato sopra il preiuditio che importantissimo ne risultava alla dignità et interessi della Repubblica dalla sentenza dei cadileschieri, et dal pagamento ai bosinesi in virtù d’essa fatto, per il costume de turchi dato un caso seguito di farne subito canon per tutti gl’altri, et considerando che sottomettendosi li suoi baili nelli affari publici ai giuditii dei cadileschieri, si preiudicava non solo alla dignità ma alla libertà della Repubblica, la quale per il corso i tanti secoli non ha mai riconosciuto in terra giudice alcuno, et che per la grande corruttela dei giuditii turcheschi, et per le tante prettensioni che tutto il giorno a suoi baili vengono promosse, conveniva ella di questo modo soccomber a infiniti gravissimi dispendii, efficacemente mi domandò di impiegar tutto il mio spirito et sforzo per far con publico decreto dell’istesso re dannar, abolir et strappar dai libri et registri publici non solo la predetta sentenza, ma li cozetti et altri seguiti in questa materia sotto l’illustrissimo mio precessor, sì che non ne restasse già mai alcuna memoria della quale ne potessero Turchi in alcun tempo servirsi a publico preiuditio. Il che non essendo possibile sperar d’ottener dal re senza l’assenso del medesimo Ali primo visir, che lo reggeva a suo modo, lascio pensar alla prudenza dell’eccellenze vostre la difficoltà d’indur quell’uomo di pessima natura et volontà contra la Repubblica a far che la Maestà Sua dannasse et abolisse come ingiuste le cose da lui medesimo poco prima fatte, et a metter con ciò, come egli medesimo mi diceva, la sua testa in manifesto rischio. Et pur finalmente, superata ogni difficoltà, l’indussi a farlo, et a cavar dal re un segno imperiale giurato et segnato di proprio pugno dalla Maestà Sua, et che habbi l’istessa forza che la capitulatione, nel quale fu da lei col consiglio del muftì et del suo imperial Divano dicchiarata nulla et invalida la sentenza et cozetti predetti, strappati dai libri pubblici per abolirne ogni esempio et memoria, et la Repubblica et i suoi baili non tenuti ad alcun riffacimento de danni in terra o in mar, né a star al giuditio dei cadileschieri, né di chi si sia, ma solo a trattar li negotii col primo visir, come si costuma tra principe et principe, con altre clausole di somma dignità et molto vantaggio di publici interessi che non era espresso nelle capitulationi. Il qual segno imperiale è poi stato di tanta forza che come di un forte scudo io me ne son prevalso in tutto il corso del mio bailaggio, et riparato in tanti fastidiosi negotii et prettensioni, senza haver dato mai per sopimento o riffacimenti d’essi un aspro ad alcuno, et senza esser stato mai non solo al giudizio dei cadileschieri, ma ne anco voluto veder la lor faccia, tuttoché, massime in questo ultimo accidente della galea del bei d’Andro habbino fatto meco ogni sforzo nel qual, come dirò a suo luogo, niuna cosa giovò più a sostentar questi doi punti dei rifacimenti et de i giuditii quanto l’esser noto alla Porta di non haver io mai in niuna occasione, non ostante qual si voglia travaglio o pericolo, voluto ceder, con che restano al presente nell’animo di tutti così fermi et stabiliti che non solo più non li tentano con le violenze che facevano prima, ma liberamente confessano di non più prettenderli con l’attestione anco del medesimo cadileschier della Gretia, della cui auttorità et interesse principalmente si tratta; il qual nel caso di Bervis rispose al re, che gli ricercò sopra di ciò il suo parere, esser stato solito dei baili inanti la sentenza dei cadileschieri fatta a favor de’ Bosinesi comparir al loro giuditio, ma doppo la detta sentenza et l’arrivo di me bailo alla Porta, non haver io mai voluto farlo, alegando tenerne rigorosissimo ordine dalla Repubblica, che come principe libero et grande non ha da sottoporsi al giuditio d’alcuno, il che essendo anco stato conosciuto et dicchiarato da sultan Osman con un segno imperiale, confirmato et giurato novamente da Sua Maestà medesima, non gli poteva essa rivocar in dubio. Dal sostentamento delle qual cose, stabilito con gran vigor per tanto corso di tempo nel mio bailaggio, et in tante travagliose occasioni, per le quali la dignità et l’interesse della Repubblica colla sentenza dei cadileschieri, morte del Borisi et sue consecutioni era stata tanto pregiudicata, non solo si è restituita nel grado di prima, ma in quelli maggiori di riputatione et di stima, et dirò anco di stabilimento d’amicitia che sempre conseguitò la riputation quanto mai per l’adietro, né di ciò occorre addur altra prova che le cose tanto molteplici et ardue superate nel mio bailaggio con gran publica dignità et senza alcuna spesa, il che certo non mi sarebbe potuto riuscir se non havessi con le dette operationi stabilito un concetto grande alla Porta della riputation e stima della Republica, et egual desiderio di conservar seco la buona pace et amicitia, l’evidente utilità della qual all’interesse del Gran Signore feci constar di maniera al medesimo Ali, et a tutti gl’altri, che non ostante la sua mala volontà, et li potenti stimoli di Cesare Gallo, ambasciator dell’imperator, che in congiuntura delle cose predette da me ottenute era capitato alla Porta, et con offerta a lui di cento mille cecchini a nome di Spagnoli fece ogn’opera per soccorrerli, per divertir con ciò la guerra da Polacchi et accenderla contra la Republica, conforme all’inclination del medesimo visir, superai anco tutto questo contrario et lo tenni fermo nell’accordato predetto, sin che successe poco dopo la sua morte, restò la Christianità libera da tal macchinator.
A lui successe Cusseim albanese, il più duro et aspro all’interessi della Repubblica. Non so per qual causa di quanti travagli al mio arrivo alla Porta, come all’hora avisassimo coll’illustrissimo precessor, con costui parimenti convenni superar gravi difficoltà per l’instanze che a lui subito fecer li secondi bossinesi per il taglio del predetto accordo, portando con querelle et esclamation grandi che Ali, corrotto da me con denari, li haveva costretti a conscentirli a repugnar ogni giustitia, che in un’istessa causa li primi fossero stati intieramente pagati, et essi con solo terzo, et col ceder di più le loro ragioni nelle mercantie predette; cosa che per la sua per la sua apparenza et honestà, et per la poca buona volontà del visir potev sconcertar il tutto et rinovar li travagli, se col medesimo visir non fosse stata da me superata et spuntata una risoluta confermatione delle cose accordate, per la quale restò reciso per sempre il filo ad ogni loro attacco, anzi lo andai di giorno in giorno così ben disponendo verso gl’interessi di Vostra Serenità, che da verso et contrario divenuto espresso fauttor di essi, reiettò accremente l’instanze del cadì di Clissa, spedito espressamente alla Porta da tutti i confinanti per la prettensione delle ville traurine, che all’hora et dopo promosse con grande ardor, mai ho lasciato spuntar, et quelle delli ambasciatori ragusei per un grosso riffacimento de danni inferiti alla nostra armata nei movimenti d’Ossuna, et per l’essentione de dacii per il Golfo, sostentati da essi con calor et forze grandi da officiali et donativi per devertir la guerra di Polonia et accenderla contro la Republica, come si è detto. Et mi diedero da far assai, valendosi essi della condition de quei tempi nei quali, per dir il vero, per le cose accadute prima del mio arrivo, la riputatione della Serenità Vostra alla Porta si trovava in grande declinatione, resi con tutto ciò vano ogni lor conato, et con altretanta loro mortificatione ottenni in faccia di lor medesimi dall’istesso visir commandamenti molto efficaci alli sanzacchi di Dalmatia et Albania, et ai bei dell’isole dell’Arcipelago per soccorso di gente et di vettovaglie alla nostra armata, che mi fu dalla Serenità Vostra commesso, et apportò alli suoi interessi et riputatione grande vantaggio.
Partì per la guerra di Polonia Cusseim con sultan Osman, et restò caimecan in suo luoco Acmat nativo di Costantinopoli, a cui havendo egli prima del partir raccomandato a instanza mia li nostri interessi, et sollevandosi da tali operationi di giorno in giorno la dignità della Republica alla Porta, governandomi anco seco col stile medesimo, superai molti litigii et prettensioni, che se ben grandamente importanti, per non dar tedio tralascio, non solo senza alcun spesa, ma ne anco con l’anticipato esborso di pochi giorni della pension del Zante da lui per urgenti bisogni con grande instanze ricchiestami, tanto hebbi sempre fisso nell’animo di abolir li pregiuditii et di spuntar li negotii non con la forza dell’oro ma con quella del vigor et dell’auttorità come principal sollevamento della publica riputatione.
Tornò dalla guerra il re et seco Dilavert, creato in campo primo visir, di natione croato, fiero et avidissimo, il qual comprato per forza d’oro quel carico, procurava per tutte le vie il risarcimento. Sotto costui per un gran concorso di querelle nate da varii fastidiosi accidenti poco prima in mar e in terra, quasi da ogni parte de nostri confini in un tempo istesso succeduti, provai travagli grandi; ma due particolarmente. L’uno per la presa della galeotta di Giulomer, sanzacco di Lepanto, seguita in grande industria et calor dall’illustrissimo Thiepolo, capitan della guardia di Candia, nel canal di Santa Maura, con liberation di molti schiavi sudditi della Repubblica et d’altri principi; salvatosi il bei con tutti i turchi in terra, condotta la galeotta col fanale et insegne imperiali al Zante. L’altro per l’arresto poco dopo medesimamente fatto dall’illustrissimo signor Gierolamo Morosini, fo dell’illustrissimo signor Tadio, capitano delle galeazze nelle acque di Modon, per soccorrer all’estrema penuria de grani della Canea che due grossi vascelli carichi di grani a Tunisi per l’istessa città di Costantinopoli, nella quale medesimamente regnava penuria grande, condotti e scaricati da sua signoria illustrissima in quella città. Per l’uno et l’altro de quali successi passò il visir, et altri principali ministri a rumori et querelle così vehementi, con minaccie di morte contra di me et di rottura di guerra contro Vostra Serenità, quanto mai per qual si voglia altro accidente, parendo loro un estremo disprezzo il condursi le nostre galee nei mari lor propri a insidiar et prender quella di un loro bei col fanale et insegna del proprio re; et non solo nei mari, ma nelle spiaggie medesime; né bastar la liberatione de nostri sudditi, ma esseguir anco quella de alieni prencipi aperti nemici della Porta; et asportar l’istessa galeotta nelle nostre isole senza restituirla, essagerando il muftì ben affetto a Vostra Serenità con sommo ardor, che se pur il bei era sospetto di qualche colpa per i schiavi nostri sudditi bastava ben la liberatione d’essi, senza quella de lor propri nemici; sopra tutto aggravando l’asportatione del legno col fanale et insegne imperiali, chiamandola attione hostile et insopportabile, et con non minor vehemenza et accerbità invehendo contra la presa dei doi vascelli con grani destinati al sovvegno dell’istessa città imperiale nel suo sommo bisogno. Et il sentimento fu tanto grande che congiungendo il rigor degl’effetti a quello delle parole, non solo vennero in risolutione di commetter a tutte le scale et al capitan bassà l’arresto di quanti nostri vascelli incontrassero, ma parendo al visir et a gl’altri li predetti doi importanti successi, occorrenza molto opportuna et valida, per tentar se col mezzo di essi potessero divertir il re dal viaggio della Meca, si sforzarono d’imprimerlo che la Republica con queste et altre gravi offese in poco tempo inferite haveva, con l’accordo et intelligenza di altri principi di Christianità, dato principio alla rottura et violata la pace, et convenir alla dignità della Maestà Sua vendicarla con la guerra. Alli quali stimoli et impulsioni non solo il visir et i mal affetti, ma li amici et ben affetti ancora assentivano; questi non già per accender l’animo del re contra la Serenità Vostra, ma per deviarlo dal viaggio predetto. In modo che trovando io chiuse l’orecchie et gl’animi d’ognuno alla giustificatione di tale impostura, la necessità mi mostrò una via sotterranea et secreta col mezo della quale fatto stillar nell’orecchie del re che ben sapevo esser ardentissimo a quel viaggio, questi esser tutti artificii et inventioni de chi procurava interomperglielo, et che se io havessi modo di far pervenir alla Maestà Sua la verità dei predetti successi, li farei chiaramente costar la loro leggierezza, et la costante et ferma volontà della Republica di conservar seco la pace et amicitia. Hebbero queste insinuationi tanta forza nell’animo del re che insospettito degli artificii, et dando fede al consiglio, commise subito al bostangi, suo confidentissimo, di certificarsi da me con gran secretezza del vero. Onde potei io per questa via purgar et sincerar l’animo della Maestà Sua della sinistra impressione macchinata dai ministri al fine ch’ho detto, et senza alcuna spesa ritrattar l’ordine delli arresti et svanire tutte le nuvole che adunate dai ministri potevano, da un principe giovane e bellicoso et di pensieri vastissimi, cagionar alle cose della Serenità Vostra qualche grave tempesta, ma non cessarono già perciò li miei propri travagli, et per la quiete conseguita alle cose della Serenità Vostra li miei propri travagli et pericoli; anzi, si fecero molto più frequenti et maggiori perché stabilita dal re, libero da tal sospetto, la sua partita per la Meca, seguì la sollevatione delle militie, la morte della Maestà Sua, il massacro di tanti visiri et principali ministri, i continui tumulti del popolo, le revolutioni del governo et di tutte le cose per le quali, fatte le militie tiranne dell’Imperio li avani et prettensori, soliti prima ricorrer al visir e in Divano per ricercar giustitia nelle lor prettensioni col bailo della Serenità Vostra per li occorrenti successi, ricorrevano alla forza et violenza de sphai et giannizzeri, i quali, spinti dalla speranza del guadagno et dalla infuria barbarie, non era giorno che concorrendo furiosi et armati alla mia casa non mi movessero infinitte prettensioni per questo et per quello, rinovando le già terminte et sopite, et sforzandosi con l’armi snudate violentarmi al subito rifacimento, minacciando che non havendo perdonato alla vita del proprio re, meno perdonerino alla mia. Così gl’interessati nei doi vascelli condotti alla Canea, che eran giannizzeri, sollevato buon numero di loro, tentarono con insulti et violenze grandi la reintegratione; et Giulomer, condottimi pur in casa un’altra man di loro, con promessa di diese mille cecchini de venti mille ne prettendeva, mi concitò contro una pericolosa sollevatione, dalla qual per gratia del Signor Dio mi liberai senza alcun esborso, resistendo sempre mai con la costanza et vigor dell’animo in casi tali, ben necessario per non soccomber a quei dispendii, che col mostrar segno di temer et ceder una sol volta a prettensioni de militie sollevate, avidissime et incrudite nel sangue del proprio re, sarian derivati; et tanto maggiori nel regno di sultan Mustaffà che per la sua stolidità, amministrato dalla madre et da Daut suo cognato, deboli di consiglio et di spirito, et tutti intenti al blandimento delle militie, nelle qual sole ben sapevano consister il mantenimento del re, et il lor proprio. Onde Daut in luoco di repararmi dalli predettii pericoli, mi stimolava coll’essempio di sé stesso et di tutti gl’altri, ceder ai tempi et alla necessità, et col denaro procurar di liberar, et gli più amorevoli ministri temendo di qualche sinistro nella mia vita da tali violenze et impeti, mi confortavano al medesimo. Dai quai consigli vedendomi Calil capitan bassà molto alieno, mosso dal suo solito buon affetto verso Vostra Serenità, offerse a Giulomer un sanzaccato in Cipro per rifacimento de suoi danni, et per ripararmi dal pericolo.
Ho tocco di sopra la morte di Daut, la subrogatione et fuga di Cusseim, l’elettione et depositione di Mustaffà, di Giorgì, di Cusseim riasunto et espulso di nuovo, quella d’un altro Ali, tutte successive nel spatio di quindeci mesi nel regno di Mustaffà, che fu in vero un caos di disordini et confusioni, et a me di gravi travagli et pericoli, che renderebbe troppo molesto all’eccellenze vostre et a me la loro rammemoratione. Ben dirò che havendole io con tanti cambiamenti de visiri et di humori stravagantissimi, ma molto più con tante violentie di sollevate militie, superati tutti senza spesa alcuna et senza declinar mai né a rifacimento de danni né a giudizio de cadileschieri, come prettendevano et s’era introdotto, con che non solo restorno con ciò aboliti i pregiuditii passati, ma accresciute di modo alla Porta la riputatione della Serenità Vostra, che se ne son poi veduti gl’effetti ch’ho sopradetto, et che tuttavia continuano perché, stabilito in tutti alla Porta per queste operationi il concetto della ferma risolutione della Serenità Vostra di non ceder nell’avvenir ai passati pregiuditii et dispendii, et che non havendolo fatto in tempi et sforzi tanto violenti molto meno lo faria nei tranquilli, vivendo ogn’hora nella memoria d’ogn’uno il fatto di quel giannizzero, da me all’hora rappresentato a Vostra Serenità, che prettendendo esser stato mal trattato et spogliato dei danni et robbe da un nostro capitan di Tine, venuto a Costantinopoli a prettender da me il rifacimento nel maggior furor delle militie, ricorso a giannizzeri suoi compagni con racconto seditiosissimo, et col portar a torno et ostentar la catena con la quale asseriva esser stato dal predetto capitan priggionato, mi concitò contra un pericolosissimo tumulto, insidiandomi per le strade et conducendomi più volte giannizzeri armati nella mia casa, con impeto et violenze incredibili non ostante le quali, vedendo non poter spuntar meco il suo rifacimento, infuriato contro il medesimo capitan bassà che procurava di aquietarlo, accompagnato da molti giannizzeri lo assalì con sassate per la strada, con suo manifesto pericolo. Con i quai timori e sforzi, vedendo egli non poter indurmi al suo intento, si condusse a Scio per ottenerlo dal console Balsarini, padre del presente, al quale tutto che per mio esempio et per i miei conforti non mancasse la volontà, non supplì però l’animo a resister alle sue violentie et alle minaccie del capitan bassà che ivi si trovava sorto con l’armata, che s’indusse sodisfarlo con l’esborso, tra denari et robbe, per la summa di [***], come appar per un conto all’hora da lui mandatomi, et io a sua richiesta a Vostra Serenità, appresso la quale suo figliolo console presente al mio partire mi ha più volte instato d’intercedere per la sua reintegratione, come ha fatto con sue lettere l’eccellentissimo signor bailo Venier, portando esso console l’estrema necessità che a ciò costrinse suo padre per evitar l’evidente pericolo della vita, che dalla furia de giannizzeri certamente gli soprastava, et la rovina della sua casa, quando dalla solita benignità della Serenità Vostra non resti sollevata; et invero da quello provai io dall’impeto et violenze de giannizzeri per la medesima occasione, m’assicuro che da estrema necessità il console sia stato forzato a quell’esborso, et che se non ha potuto seguitar il mio esempio non merita però d’esserne incolpato, ma più tosto benignamente escusato dalla solita pietà dell’eccellenze vostre, che ben puono figurarsi quanto arduo et pericoloso fosse il resistere a un impeto de giannizzeri che non l’han perdonato al suo proprio re. Et chi si è trovato più volte in questi frangenti può molto ben affermarlo. Né io ho potuto defraudar il console che ben la servì, come ha fatto anche suo padre per il corso di molti anni, di questa vera et sincera giustificatione, acciò gl’interessi della sua casa possino esser posti in quella consideratione che dalla pubblica pietà in casi di tal natura sempre fu solito.
Con tali agitationi passai sotto l’Imperio di sultan Mustaffà, le quali continuando anco per qualche tempo sotto quello di sultan Amorat. Come in mare doppo la gran fortuna sèguita per gran pezzo l’agitatione, seguirono varie mutationi di governo, et per conseguenza nella trattatione de negotii che occorressero più che mai travagliosi, grandi difficoltà le quali, pur superate da me con tanto risparmio del denaro et avvantaggio della publica riputatione che al mio partir dalla Porta, per consenso universale, essa si trovava non solo reintegrata, ma riposta nel suo maggior colmo.
Si è detto di sopra che poco doppo l’assuntione di sultan Amorat fece egli tagliar la testa ad Ali primo visir, per la cui opera era stato assunto all’Imperio, et in suo luoco eletto et spedito con essercito in Asia Mehemet Circas, restando suo caimecan in Costantinopoli Mehemet Giorgì. Morto Circas in Asia, fu eletto Caffis, bassà di Diarbechir, che tentata in vano la ricuperatione di Babilonia fu costretto a levarsi, con quel grave danno dell’essercito che all’hora avisai. Per il che fatto masul, fu in suo luoco eletto Calil, soggetto di quella virtù molto ben nota alla Serenità Vostra, et spedito immediate alla guerra; ma prima successe in Costantinopoli, per sollevatione dei sphai, la morte violenta di Giorgì, et l’eletione di Rezep in suo luoco, il quale tuttavia continua nel carico. Con tutti questi superai io negotii et travagli grandi.
Le tregue con Spagna, è molto ben noto alle signorie vostre eccellentissime con quanta insistenza et calore sian state alla Porta nel mio bailaggio per occasione delle guerre di Valtelina procurate da Spagnoli, con particolar oggetto di ingelosir et nuocer alla Republica et necessitarla, se non altro, anco per questa via, a continui importanti dispendii. Perciò non più per vie secrete o dissimulate, come eran soliti, ma notorie et palesi. Fu spedito dal viceré di Napoli alla Porta il Montalbano con offerte d’importantissime utilità al re et di grossi donativi ai bassà per spuntarle; della qual cosa avvisati dalli loro ambasciatori residenti alla Porta, li re di Francia, d’Inghilterra et li Signori Stati, interessati anch’essi contra le dette tregue, estimando sopra modo il negotio, li commisero di far unitamente col bailo della Serenità Vostra ogn’opera et spesa per interromperle; et da lei mi fu commesso il medesimo sin alla suma di 4 mille ceccchini in sua portione. Hebbi io difficoltà grande nell’unir le volontà et li uffici delli ambasciatori dei due re, per cagione di precedenza et altro molto discordi; poi nel divertirli della spesa, alla quale per li ordini delle maestà loro et per altri rispetti, si mostravano molto propensi, dimostrandogli con potenti ragioni che convenendo portar noi con i ministri turchi la cosa in modo che apparisse trattarsi in essa non tanto del servitio de nostri principi, quanto del loro proprio, non occorreva slargar così subito la mano ma andar riservati per non insospettirli et renderlo più costoso et difficile; col qual consiglio s’operò unitamente di maniera che con cinque o sei vesti per uno donate a Giorgì caimecan, non solo restò interrotta la trattatione, ma anche fatto partir da Costantinopoli il Montalbano senza haver voluto admetterlo alla sua presenza, né dato orecchio alle sue proposte, con aperta dichiaratione al mondo di non voler il Gran Signore né tregua né accordo alcuno col re di Spagna, et con severo commandamento a Ragusei, che l’havevano admesso in Ragusi et indricciato a Costantinopoli, di non admetterne più alcuno. Il qual commandamento gli fu anco con speditione espressa de capigì in più forti et rigorosi termini repplicato, per avviso d’altro soggetto spedito pur a Ragusi dal viceré di Napoli alla Porta per l’istesso effetto, non potendo tollerar Spagnoli l’affronto de sì palese et indegna repulsa; et fu da Ragusei in essecutione del predetto commandamento rimandato in Puglia. Il che, nelle congiunture dell’hora servì a grande vantaggio delle cose publiche, con somma mortificatione de Spagnoli, et riputatione della Serenità Vostra et delli altri prencipi amici della Porta. Anzi, nel medesimo tempo ne spuntai io un altro di molto maggior vantaggio al particolar servitio di Vostra Serenità poiché, mentre Spagnoli procuravano con tanto ardor, principalmente a suo preiuditio le dette tregue, ottenni io dal Gran Signore un’ampla et libera permission di levate di genti militari dal paese di Sua Maestà, terrestri et maritime, come da lei mi fu commesso, et l’ottenni non dalla sola auttorità di Giorgì caimecan, ma da quella di tutto l’imperial Divano, dove egli volse propor la cosa, come grandemente importante et contrariata da soggetti grandi, che interessati nei timari dei paesi confinanti ai nostri, et suggeriti dalli officiali dei ministri imperiali et altri mal affetti, portavano da queste levate nascer la spopolatione di essi timari, con grave danno et pessime conseguenze al servitio del Gran Signore. Anzi havendo Morteza, bassà di Bossina, rescritto al Divano et contradetto con varie ragioni alla permissione delle dette levate, asserendo a chi gli portò li commandamenti che eran falsi, né mai più dal Divano in tal forma concessi, gli li fece dal medesimo Divano riconfermare et commettergli l’essecutione con maggior forza; onde convenne egli obedir et permetterle, con quel notabile servitio per le congiunture della ditta guerra che è ben noto, et con somma riputatione della Serenità Vostra per la cosa in sé stessa et per le sue conseguenze perché, havendola io fatta registrar nei libri del medesimo Divano, servirà per esempio et canone da ottener il medesimo in tutte le future occasioni. Per l’insolenza usata da Amurat, bassà d’Aleppo, all’illustrissimo console Civrano, mi commise questo eccellentissimo Senato di far ogn’opera per la sua depositione et castigo, et Vostra Serenità ne scrisse con efficacia grande all’istesso re, et ordinò a me di spender la somma di [***] per ottenerlo. Ne trattai con Giorgì con quel calor che meritava il negotio, et l’intento di spuntar con la sola auttorità dell’eccellenze vostre et senza alcun dispendio; il che mi venne fatto, havendolo pur immediate fatto levar da quel governo et poi, poco doppo, anco di vita. Con la medesima sola auttorità, et senza alcuna spesa, feci pur levar dal carico di bustangi bassì Ali, presente bassà di Bossina, che havendo estorto dal Bracchi, nostro mercante, la facultà di quaranta mille taleri, con violenze et priggionie di lui et del dragoman prottogero, costrettolo a far cozetto a suo modo, et in virtù d’esso, ottenuto con dupplicati catticumaiun del re il possesso della detta facoltà, lo sforzai a restituirla al predetto nostro mercante con contrari catticumaiun del re da me ottenuti; et tutto che privo della detta facoltà et della carica, vedendo l’auttorità della Serenità Vostra, et del suo bailo alla Porta, procurò di rimettersi nella mia amicitia, et eletto bassà di Bossina mi assicurò et promise con ufficio molto pieno ogni miglior vicinanza, come si vede che va essequendo.
Cedè questa attione spuntata con tanta dignità et sollievo de nostri mercanti contra l’auttorità e sforzo di ministro così grande, di somma consolatione et rincoramento ai medesimi mercanti di attender con quiete et sicurezza d’animo ai lor negotii, vedendo la vigorosa et potente protettione che ne teneva il bailo di Vostra Serenità, la quale gli fu da me in tutto il corso del mio bailaggio così pronta et vivamente prestata che, nonostante le tante sovversioni del governo, et le cose turbolentissime accaddute in tutto il corso del mio bailaggio, et sopra tutto le violenze et sforzi delle sollevate militie, che per avidità di guadagno non la perdonavano ad alcuno, sono restati sempre mai i detti nostri mercanti in virtù della predetta protettione immuni et illesi da qual si voglia danno et ingiuria.
È memore la Serenità Vostra delle continue querelle et esclamationi che dai turchi di Morea et altri convicini venivano in quel tempo alla Porta, per i continui danni et infestationi de Theachini, fatti arditi in modo che non prestando in ciò obedienza alcuna ai resoluti ordini di quest’eccellentissimo Senato, et de suoi rappresentanti in quell’isola, facevano in mar e in terra contra Turchi continue depredationi; i quali, non potendo di là conseguir il rifacimento dei loro danni, si trasferivano a Costantinopoli a prettenderlo da me, come bailo et commesso di Vostra Serenità, usando anch’essi il mezzo della forza et violenze delle militie, che in quei tempi era ordinario. In tanto che venutovi per la medesima causa un capo de giannizzeri da Lepanto, fatto schiavo et taglizato da Theacchini di mille et più taleri, et macchinandomi contra una sollevatione de ginnizzeri per costringermi al rifacimento, operai con l’auttorità di Giorgì caimecan, che con una mia lettera all’illustrissimi signori provveditori del Zante et Ceffalonia, acciò li facessero giustitia contra li colpevoli, se n’andò senza tentar altro, come feci con tutti gl’altri danneggiati dai medesimi, senza devenir mai ad alcun esborso o riffacimento. Ma non havendo il sudetto capo, doppo molti mesi et instanze in quell’isole potuto ottener cosa alcuna, tornato a Costantinopoli et ricorso a giannizzeri, sollevò buon numero di loro col solito favor et impeto, non solo contra di me, ma contra il caimecan medesimo, il quale, commosso dal pericolo, mi mandò per i dragomanni a dire che io dovessi per ogni modo dar sodisfattione a costui, poiché non facendolo né egli, né io, né loro resteriano in piedi; che furono apunto le formali sue parole, verificate poco doppo nella sua persona con la sua morte, causata pur per sollevatione de giannizzeri per la causa narrata di sopra. Da che può ben comprendere la Serenità Vostra la grandezza dei pericoli che si correva dalle sodette sollevationi, la quale però non hebbe in me tanta forza di farmi deviar dal mio fermo proponimento effettuato in tutto il corso del mio bailaggio di abolir l’uso di sì fatti rifacimenti et la prettensione stabilita in turchi che il bailo fosse commeso della Serenità Vostra et obligato a risarcirli, cosa di sommi preiuditii et dispendii; onde a gran ragione io nel principio del bailaggio, esseguendo gl’espressissimi ordini di Vostra Serenità, ottenni il segno imperiale in tali proposti a lei ben noto, et l’ho, come lei ben intende, in tutti i tempi et accidenti sempre mai mantenuto con li effetti del suo vigor. Li quali, in tanti altri accidenti di tal natura, che mi sono occorsi parlando da sé medesimi, non occorre qui immorarci sopra, vedendosi massime con la cessatione di tali prettensioni coll’eccellentissimo mio successor, il frutto che con la sua molta prudenza et virtù se ne riceve.
Non devo però lasciar di ponderar alla Serenità Vostra, per la somma importanza del suo servitio, quello mi occorse su la fine del mio bailaggio nei due gravissimi negotii della galea del bei d’Andrio et dei moti di Dalmatia; molto pericolosi, ambi doi successi quasi in un tempo stesso. Et certamente il fatto della galea, per la cosa in sé stessa et per quelle che l’accompagnarono, fu travagliosissimo, et come soleva dir Giorgì caimecan, sopra ogn’altro che in questo genere nell’età sua di 90 anni fosse più occorso. Commemorando egli con parole et modi concitatissimi altre volte esser ben successe delle sconfitte di galee turchesche delle nostre, come quelle di Ramadan et d’Ali Bassà, et nondimeno, benché successe si può dir nei nostri mari, luntani da Costantinopoli, et quasi per urgente necessità, convenne la Republica, con dispendio di sangue et di molto oro resarcirli; quanto più converrà farlo in questa, assalita et sconfitta di bel giorno nel porto d’Andro, et nel proprio bailich dell’istesso bei, dove comanda et rappresenta la persona del Gran Signore, vicinissimo a Costantinopoli et sotto gl’occhi di Sua Maestà, da tre nostre galee ricoveratesi nel medesimo porto, ben vedute et honorate di rinfrescamenti dal chiecaia dell’istesso bei; et mentre egli partitosi con la sua galea da Scio per Negroponte d’ordine del capitan bassà, et fugato per camino da tre bertoni maltesi, s’era ricoverato in casa sua propria, nella quale doveva pur esser sicuro. Essacerbava la gravità del fatto et la sua propria vehementissima escandescenza, quella del capitan bassà, d’altri ministri grandi et d’infinito numero de turchi concorsi con grandissimi streppiti et esclamationi a tanto moto, col racconto et aggregato di circostanze gravissime, che egli diceva et confirmava Bervis esser concorse in quel fatto; cioè che, scoperte da lui prima dell’entrar in porto le tre nostre galee, et fattegli con la voce et con le bandiere tutti i segni d’amicitia, in luogo di corrisponderlo gli fosse sparata contra tutta l’artiglieria, et nell’istesso tempo invaso con grandissimo impeto, presa et sconfitta la galea, uccisi quarantatré leventi et sessantasette schiavi, molto numero di feriti, tra quali una sua donna gravida con una picciola figliola, ucciso particolarmente uno capigi bassì del capitan bassà, suo stretto parente, toltogli la somma di 30 mille taleri, denaro proprio del Gran Signore, da lui riscosso dall’isole dell’Arcipelago per conto dell’avanis, che, aggiunto a quello levato agl’altri, la facevano un’esorbitante somma, portando esser stata messa a sacco la galea d’armizi et ogn’altra cosa; ma sopra tutto infuriando con gridori impetuosissimi, esser stato abbatuto il fanale del Gran Signore, et coi piedi calpestato con ogni più hostil et ingiurioso termine. Essagerando all’incontro non haver esso Bervis inferito mai alle cose nostre minima ingiuria, anzi coi nostri rappresentanti et sudditi di Tine vicinato sempre con ogni amorevolezza, et facendo il medesimo Giorgì legger una scrittura fatta dall’illustrissimo signor capitan della guardia ad esso Bervis di non haver trovato in quell’occasione nella sua galea alcun nostro suddito schiavo. Le quali, et altre cose da me all’hora avisate, portate da Giorgì, capitan bassà et da tutti i ministri con incredibil impeto et con vehementissimi protesti a loro di tutti i bei concorsi alla Porta per il viaggio di Mar Negro, di non voler moversi se prima Bervis de suoi danni et loro tutti dell’ingiuria non fossero risarciti, rammemorando il fatto di Giulemer successo poco prima, et morto di disperatione per non haver potuto spontar mai meco alcun riffacimento, et con quell’essempio haver i nostri ardito quest’altro, et n’ordivan sempre più de peggiori. Urgevano con sommo ardor li sopradetti ministri meco in due cose: l’una il capital castigo dei capi delle nostre galee per il risarcimento dell’offesa del Gran Signore; et per quello de suoi danni et di quelli del bei una grossissima somma, ch’a suo conto importava più di dusento mille cecchini, facendo ogni lor sforzo per violentarmi al giuditio dei cadileschieri, et con loro sentenza costringermi al rifacimento. Concludendo, in fine Giorgì, che per minor cosa di questa successero le guerre del ’37 et del ’71, con la perdita dell’Albania et del Regno di Cipro, et non ostante la rotta della loro armata, l’esborso di tresento mille cecchini per ottener la pace, et s’infiammava in questa agitatione di maniera il suo animo che, tuttoché d’invecchiata prudenza et buona volontà verso la Serenissima Republica, mi protestò più volte o la subita essecutione del capital castigo et intiero rifacimento, o la guerra. Accrebbe le difficoltà la morte di esso Giorgì, l’elettione in suo luoco di Rezep, per la morte et spoglio del capigì bassì suo parente, et per altri accidenti successi in mar sotto il suo capitanato grandemente commosso, quella di Acmat presente capitan bassà per la pertinacia della sua natura, somma auttorità col re, stimoli di tutti i bei in quello affar ardentissimo, l’impressione sua et de gl’altri per avviso, come diceva Bervis tener di qua, che da Vostra Serenità mi fosse stato commesso il suo intiero rifacimento, l’universal congiura et sollevatione di tutti i bei, che quasi tutti si trovavano a Costantinopoli et assediavano l’uscite del re, implorando la sua giustitia, li replicati et efficaci ordini di proprio pugno della Maestà Sua al capitan bassà, che per ogni modo la gli fosse fatta. S’aggiunse i disordini della nave Barcalonga, nella qual dai esploratori del capitan bassà fu trovato un giovane mussulman che i nostri trafugavan, et conducevan in questa città con varie merci di contrabando, et fu da lui con tutto il carico arrestata, et gli principali officiali fatti prigionieri, con ferma risolutione sua, et del caimecan, di confiscar il tutto. Ma quello che sopra tutte le cose inasprì l’affare fu che, fluttuando all’hora in Dalmatia il negotio della fabrica di Giubla, et le mosse nel territorio di Sebenico di Mortesa Bassà, avidissimo di turbar la quiete di quei confini, intesa la commotione grande ch’era alla Porta per il caso della galea, vi spedì in gran diligenza Alì Brodrich con cozetti et attestati de cadì et sanzacchi confinanti, che rappresentavano al Gran Signore et al Divano le novità di quella costruttione et moti in ogni peggior forma, sforzandosi a far credere che tutto fosse per concerto della Republica con altri principi di Christianità, valendosi delle loro interne turbolenze, di romper la pace et instando con sommo ardor per occor et reprimer con la forza quelle novità, le quali portate da Martesà e da malaffetti con fine di turbar la quiete, hebbero per gratia del Signor Dio contrario effetto, perché vedendo Brodrich il negotio della galea maneggiato et sostentato da me con quel vigor et riputatione della Serenità Vostra che egli non s’immaginava, et in stato diverso dal pensiero di Mortesa et da quello si era sparso, et tornando in me l’istesso vigor nel contrapormi alle sue relationi col far costar alla sua presenza al bassà la loro falsità et il pericolo, quando dalla sua molta prudenza non fosse repressa la temerità et i mali pensieri di Mortesa et degl’huomini turbolenti, di turbar la quiete a quei confini. Giorgì, capito il termine, conoscendo l’inquietudine di Mortesa et l’importanza delle mie considerationi, s’accese in gran maniera contro esso Brodrich, rimproverandolo che con false suggestioni procurasse egli et il suo padrone far nascer humori; et replicando egli in sua giustificatione accesosi maggiormente, lo minacciò all’hora all’hora levar la testa alla mia presenza, da che, tutto atterrito e sgomentato, si gettò ai miei piedi implorando il mio aiuto presso il bassà il qual, profferendo col medesimo impeto l’istesso concetto contra Mortesa al suo chiecaià, ch’era presente, se li cacciò ambi due davanti. Li quali, grandemente mortificati per tale impensato incontro, hebbero per bene venir a trovarmi a casa per sincerarmi et offerirmi il loro impiego perché il tutto a quei confini restasse aquietato, come col ritorno in Bossina del Broderich è del tutto seguito, in virtù delle relationi da lui fatte a Mortesa di quanto gl’era occoro et de commandamenti eficaccissimi ch’io gli feci consignar et lettere del caimecan con severi prottesti di astenersi dalle novità et di conservar per ogni modo a quei confini la quiete, prohibendogli particolarmente qualunque tentativo contro Giubla et Verpoglie che egli macchinava, et con la retrattatione del commandamento da me poco prima per ordine della Serenità Vostra ottenuto circa l’agiustamento di quei confini, non stimato da lei per all’hora di suo servitio, anzi con la remottione nell’istesso tempo dal caimecan promessami, et poco doppo conseguita, dell’istesso Mortesà dal governo di Bossina a quel di Buda, con doppio servitio della Serenità Vostra, levando un spirito turbolentissimo da suoi confini et trasferendolo a quelli dell’imperator, da che poi ne son seguite quelle mosse d’armi di lui et di Betlem Gabor, che con la diversione nelle cose della Valtellina et di Germania, apportarono all’interessi della Serenità Vostra et alla causa publica importanti benefitii. Il che tutto, per gratia del Signor Dio, salvi tutti i publici rispetti, seguì con somma dignità della Serenità Vostra, e senza alcuna spesa.
L’accomodamento del negotio de confini, per la reputatione con la quale seguì, giovò grandemente all’agiustamento di quello della galea perché, avedendosi da tal essempio, il capitan bassà, più ardente d’ogn’altro, che io non haverei in maniera alcuna condesceso alle sue immoderate prettensioni, tentò con forma nuova e captiosa di ottener il suo intento; et chiamati a sé i dragomanni degl’altri ambasciatori, acciò servissero de testimonii, fece alla presenza loro et di molti turchi sborsar a Bervis la somma di sei mille cecchini, et da un cadì formar cozetto che glieli sborsava de suoi proprii, usando anco questo artificio per necessitarmi per questa via a cominciar a piegar a suoi esorbitanti disegni, i quali molto bene da me conosciuti, et li preiuditii grandi che ne risulteriano alli interessi publici, quando nelle prettensioni di rifacimenti, i ministri grandi della Porta, mostrando esborsar del loro proprio denaro mettessero la Serenità Vostra in necessità di risarcirli, feci con lasciarmi molto chiaro per ciò intender a signori illustrissimi riuscir vani; et nell’accomodamento seguito poi con Bervis, annullar dal medesimo capitan bassà il detto suo cozetto, come con la medesima riputation et dignità della Serenità Vostra gli feci ritrattar anco non solo la confiscatione della nave Barcalonga et il castigo de suoi offitiali, per la causa sopradetta; ma anco il punto nel quale egli grandemente insisteva di non voler liberarla se prima non seguiva l’accomodamento con Bervis, al quale io all’incontro, per decoro della Serenità Vostra, non volsi mai condescender se prima non la vidi non solo liberata ma anco partita.
Con che restò per gratia del Signor Dio finalmente terminato anche questo sopra tutti gl’altri travagliatissimo negotio, et per commun giuditio il più pericoloso alla perturbatione della quiete d’ogn’altro che per il corso di molti anni sia tra la Porta et la Republica accaduto, et coll’esborso di soli tre mille taleri a Bervis sopite prettensioni de più di 200 mille, messo in silentio il castigo de publici rappresentanti, il risarcimento della dignità del re, nella quale tanto insistevano, et così gran strepiti et romori nati per quel successo, et riposta in colmo la stima e reputatione di questa Serenissima Republica, tanto maggiormente che mossi gl’ambasciatori de principi christiani residenti alla Porta per l’importanza della cosa et per gl’eccitamenti dei ministri grandi di essa a intromettersi per l’accomodamento. Io, destramente deviando, volsi che con la sola auttorità della Serenità Vostra restasse l’affare del tutto terminato; havendo inoltre sopra ogni cosa havuto la mira che non per all’hora, né per qualche tempo, come in altri gravi affari è per l’adietro accaduto, ma per sempre restasse il negotio finito et posto in un perpetuo silentio; poiché v’è il cozetto del bei medesimo Bervis fatto di sua spontanea volontà per mano di cadì, con tutte quelle maggiori espressioni et sollennità che si possono desiderare per intiera sodisfatione et quietanza di tutti i suoi danni et prettensioni, et vi sono lettere del re, caimecan et capitan bassà alla Serenità Vostra che confermano il detto cozetto. Et quanto all’interesse del Gran Signore per la pretesa offesa alla sua dignità, spoglio de suoi denari et uccision di tanti suoi sudditi, apertamente decchiarano con parole certe et pregnatissime d’esser restata la Maestà Sua di tutte le predette cose appieno sincerata e sodisfatta dalle relationi del bailo di Vostra Serenità, con altri concetti tanto degni et insoliti all’altiere forme del stil ottomano, che parendo al capitan bassà, homo elettissimo, poco decenti, alla grandezza del Gran Signore voleva per ogni modo alterarle, ma valendomi io dell’auttorità di Calil, fatto all’hora primo visir, le feci tenir ferme onde, vedendo egli la volontà del re, et del visir, scrisse in conformità; anzi aggiunse nell’istesse lettere che haveria honorato il bailo della Serenità Vostra et ogn’altro publico rappresentante, et lo effettuò al mio partir con honori non ordinarii, com’anco alla venuta del signor mio successor con mandargli incontro 200 archibuggieri dell’Arsenal. Il qual cozetto et lettere mandai autentiche a Vostra Serenità, et altre, pur autentiche, consignai all’eccellentissimo signor mio successor, a perpetua sicurezza; et in essi feci pur dalla Maestà Sua et ministri ampliamente confirmar i due punti tanto importanti, da me spuntati et sostenuti sempre: il bailo non sia commesso della Republica, né obligato a risarcir danni, né a comparir a giuditio de cadileschieri per alcuna occasione, come pur si vede che più non ne parlano.
Dalla serie in particolare di quanto passò in questi due gravissimi negotii, può ben questo eccellentissimo Senato comprender in che grado di riputatione e di stima io habbi lasciato alla Porta al mio partir le cose sue. Ma dall’altro conto considerar anco quanto convenga continuar con turchi, con quella misura et moderatione usata sempre da nostri maggiori, et a questi tempi farsi più che mai necessaria per non produr nel loro animo il sospetto di poco conto o di sprezzo, facile a imprimersi in chi va declinando; cosa che negl’animi de principi grandi punge più accremente, et stimola alla vendetta di qual si voglia altra.
Al mio partir dalla Porta lasciai Calil Bassà nel grado di primo visir, eletto poco prima dal re per la guerra di Babilonia contra il Persiano, come quello che per haverla altre volte amministrata nel medeimo grado con molta sua lode, et con la presa et sacco di Tauris contra il medesimo re, era eccitata in tutti gran speranza che per la sua virtù et per il favor della fortuna nelle sue passate imprese dovesse anco quella sortirgli con felice successo. Et sebene s’incaminò egli quasi subito per la detta guerra, hebbi io però qualche opportunità di prevalevarmi in quell’eminente carica della sua auttorità et perfettissima dispositione verso la Serenità Vostra poiché giovò grandemente alla buona conclusione del negotio della galea, et a superar le durezze del capitan bassà, come ho sopradetto; et mosso dalle mie efficaci querelle contra Bedich emin d’Aleppo per le grandi et continue estorsioni de nostri mercanti, rappresentategli anco al suo arrivo in quella città dalla molta virtù dell’illustrissimo signor console da Pesaro, lo punì col capital castigo. Prestò in tutte le cose a signori illustrissimi et a nostri mercanti ogni favore, et per le medesime mie istanze fattegli prima della sua partita, a richiesta dei padri franciscani in Gerusalem, levò da quel governo il bassà che li travagliava, et lo conferì a Mehemet, loro ben affetto, da me raccomandatoli. Et non è dubio che se egli fosse ritornato alla Porta nel grado medesimo havrebbe esercitata la sua auttorità negl’interessi di lei, con la prontezza et affetione ch’ha sempre fatto non solo nel mio, ma in altri precedenti bailaggi, come l’è molto ben noto dalle lettere et relationi dell’illustrissimi signori miei precessori, et dalle mie, che ben dimostrano di quanto vantaggio et giovamento in tanti anfrati et pericoli mi sia stato il suo favor, esperimentato da me non ostante le variationi della fortuna che anche egli in tanta rivolutione di cose convenne provar, sempre mai fermo et immutabile. Parmi dalle lettere dell’eccellentissimo signor bailo, che egli hora seda nel secondo loco in Divano ma, come si voglia, haverà sempre per l’invechiato suo credito e valor auttorità grande in quel governo, et gioverà grandemente conservarsi la sua ottima dispositione.
In loco di Calil nel grado di primo visir fu, doppo la mia partita, eletto dal re Crustef, et spedito contra il Persiano. È egli di natione albanese, poco maggiore di 50 anni, nutrito nel Serraglio, nel qual a mio tempo essercitava il carico di silictar, che porta la spada di Sua Maestà, la quale, conferitogli quello d’agà de giannizzeri, lo mandò all’impresa di Babilonia sotto il visirato di Caffis, nella quale, benché mal riuscita, dimostrò egli gran coraggio e valor; onde, revocato Calil, l’ha eletto primo visir et rispedito al’istessa guerra, et hora per questo ci scrive si trova egli con l’essercito sotto Arzirum per ricuperar quella fortezza, frontiera principalissima della Persia, dalle mani d’Abbasa, ribellatosi al Gran Signore. Poco discosto dalla quale trovandosi il re di Persia con essercito di 50 mille cavalli, facile sarà che quando Abbasa conoscendo non poter conservarla a sé medesimo, come fece Bedich di Babilonia, la dà più tosto al Persiano, col quale si sa nutrir egli intelligenze et prattiche. Il che, come riuscirebbe di grandissimo preiuditio all’interessi della Porta, per quei rispetti che dirò a più proprio luogo, così quando sortisse a Crustef l’aquisto d’essa, cresceria grandemente di credito et di riputatione, et si stabiliria per gran pezzo nel primo grado; si che mentre dimorarà egli in quelle parti, sarà officio della prudenza dell’illustrissimo signor console in Aleppo coltivar il suo animo verso la Serenissima Republica, come io non ho mancato di farlo mentre dimorò in Costantinopoli, benché egli, di natura molto grave et ritirata, poco s’impacciasse nei negotii di fuori del Serraglio, con che s’acrebbe anco la stima et la gratia del re.
Nel carico di caimecan, cioè luogotenente del primo visir, vi lasciai Rezep bassà, che tuttavia continua. In età di 55 anni, nato in Bossina, nutrito anch’egli nel Serraglio, et per i suoi gradi pervenuto a quella di bustangì bassì, capo dei giardini del re, fatto poi da sultan Osman bassà alla Porta, et datogli in moglie la sorella maggiore, col favor della quale ottenne prima il capitanato del mar, et poi la luogotenenza del visir sopradetta, nella quale sono hormai tre anni che vi continua, più lungo tempo di alcun altro doppo le commotioni di quel governo. Il che s’attribuisce così all’auttorità della moglie grande appresso alla sultana madre, et al re medesimo, come alla sagacità et industria del medesimo bassà, che molto bene conscio di sé stesso di non esser per sé solo bastante a tanto peso promise al re di non risolver cosa alcuna importante da sé solo, ma consultarla con i più savi et isperimentati ministri, portarsi la conclusione a lei per riceverne l’approbatione, con la qual nuova forma in quel governo, nel quale chi presiedeva nel medesimo grado perché ogni cosa dipendesse da sé soli non eran soliti communicarli con gl’altri, s’è egli scemata l’invidia et aquistata la gratia et benevolentia dei principal ministri, et la stima appresso il re ai suoi consigli, maturati col parere et consultatione dei più esperimentati; da che ne è conseguita la sua continuatione sin hora, che per le medesime cause potrebbe prolungarsi un pezzo. Né deve esser discara a Vostra Serenità et alle signorie vostre eccellentissime che non reggendosi, come ho detto, da sé solo, ma col parer dei più maturi et savi, non è da temersi nel suo governo d’improprie et precipitose risolutioni, alle quali mentre era capitan del mare, et si reggeva così suoi soli propri consigli, si mostrava non poco inclinato. Onde negl’accidenti fastidiosissimi che sotto di lui nel mio bailaggio sono successi, ben è stato necessario usar seco il vigor et la destrezza qual ho fatto, col mezzo delle quali son andato stabilendo sempre più in lui quell’ottima dispositione nella qual l’ho lasciato, et la stima che mostra di far dell’amicitia di questa Serenissima Republica con l’eccelsa Porta, havendomi nel mio partir sopra ogni cosa incaricato di procurar presso di lei il suo mantenimento.
Assam Bassà, presente capitan del mare, è di quaranta quattro anni, nato nei contorni di Costantinopoli di parenti vili, ma d’animo superbissimo et di concetti più eleti et vasti di qual si sia altro di quel governo, et dirò anco di maggior auttorità e fede col Gran Signore, nato da un estraordinario favor verso di lui della sultana madre che, memore dei suoi segnalati servigii in tempo che sospetta a sultan Osman macchinava a levarle la vita a Mehemet, et gli fu preservata per opera de detto Assam che, all’hora chiecaià del vecchio chislar, impiegò di suo ordine grossissima somma d’oro a tal effetto, come ho accennato di sopra. Lo favorisce et protegge con sommo ardor, onde assuntolo al grado di cavallerizzo maggior, di capitan bassà, di cognato del re, et nella direttione dei più intimi suoi consigli, dai quali sin hora dipendono quelli della Maestà Sua, ritiene et essercita egli nel presente governo l’auttorità et fede appresso le maestà loro, ch’ho detto; in modo che conviene il caimecan et il visir medesimo da lui dipender, et non è dubbio che essendole quest’anno felicemente succeduta l’impresa contra il Tartaro, et prettendendo anco con la costruttione di certo fuste haver raffrenato in parte l’ardir de Cosacchi, haverà di molto avanzato la sua auttorità e credito, il quale però havendo per principal fondamento il favor di essa sultana, potria ben presto mancargli, sentendosi pur nel re qualche diminutione del rispetto et della dependenza dalla madre che sin hora gli ha mostrato, il che, come riusciria grato a tutti gl’altri grandi della Porta, che mal volentieri soffrono la sua alteriggia et prepotenza, così non doverà riuscir discaro alle signorie vostre eccellentissime per la natura et conditioni del soggetto, et per le prettensioni che egli ha, et si lascia ben spesso intender di sollevar le cose dell’armata et dell’Arsenal et di ridurle nella sua antica riputatione et vigor, con professione alla sua prima uscita in Mar Bianco di condurvi forze tali che, superiori a quelle degl’altri, siano bastanti a reaquistar e stabilir in esso il predominio di prima, tanto diminuito per così lunga diversione da quel mare dell’armata di Sua Maestà, che, se bene trovandosi hoggidì le cose del loro Arsenale et dell’armate, nel stato et declinatione che ho di sopra rappresentato, il disegno non gli sarà così facile da mandar ad effetto; tuttavia, stando egli molto fisso in esso, et per la summa auttorità potendo superar le difficoltà et i contrarii, è da creder sia per avanzarlo più di quello han potuto far i prossimi suoi precessori. Il che porge tanta maggior occasione alla prudenza di questo Eccellentissimo Senato d’invigilar nelle cose et provisioni maritime con ogni maggior diligenza, come considererò più di sotto.
Disegna egli, per quanto a buon proposito si lasciò intender meco, accrescer le guardie ordinarie di Cipro, di Morea et d’altri luochi maritimi, dalle trentasei galee che sono al presente al numero di 50, et tenerle del continuo fuori armate per la sicurezza, come mi disse, della navigatione da corsari barbareschi, contra quali, m’aggiunse, haver animo alla sua prima uscita di condursi con l’armata nei suoi proprii nidi di Tunesi et Algier con speranza, con la industria o con la forza, di spogliarli di gran somma d’oro, che è avisato ritrovarsi nei luochi predetti; cosa, cred’io, dettami da lui più per aquietar le continue instanze et querelle che gli facevo contra essi corsari, che con animo di poter adempirle. Ma in ogni modo stimo servitio delle signorie vostre eccellentissime andar coi soliti affetti et dimostrationi, nutrendo buona dispositione e confidenza con esso capitan bassà, sì per l’ordinaria attinenza del suo carico con gl’interessi di Vostra Serenità, come per l’altre considerationi della sua particolar persona, la quale, tutto che nel negotio di Bervis, se mi dimostrasse sopra ogni altra ardente et asprissima, ridusse però alla moderatione et quiete ch’ho detto di sopra.
Caffis Mehemet Bassà, che poco prima del mio partir giunse alla Porta dall’assedio di Babilonia, sotto la quale con infelici auspicii essercitò il carico di primo visir, per gl’avisi dell’eccellentissimo signor bailo siede hora in Divano nel secondo luoco. Anch’egli è cognato del Gran Signore, et col favor della moglie, amatissima da Sua Maestà, ma molto più dalla forza dell’oro et de ricchissimi presenti fatti al re et alla madre, s’è sottratto dal pericolo che gli soprastava per la vergogna et danno di quell’assedio. È maggiore di 60 anni, ricchissimo sopra ogn’altro, et vive con estraordinaria magnificenza e splendor, sì che quando al suo arrivo lo visitassimo, l’eccellentissimo signor bailo et io, ci diede il sorbetto, et altri simili regalli usati da turchi in vasi d’oro nobilissimi, rimessi tutti a gioie di gran preggio et di eccellente lavoro, non accostumati d’alcun altro. Mostrò nel suo discorso peritia delle cose, et buona dispositione verso quelle di Vostra Serenità, nella quale procurassimo d’insinuarlo, non havendo io, per la lunga absenza di lui dalla Porta, havuto prima occasione di farlo, né di trattar seco. Vogliono però che sia d’ingegno perspicace assai, ma incostante et leggiero, et sopratutto presumente di sé medesimo, et fisso nel suo parer, né contento del secondo luoco, fa quanto può per occupar quello del caimecan, da che tra le due sorelle lor mogli naquero contese grandi; ma il modo col quale ho detto governasse Rezep accetto ai grandi, et tutto contrario a quello col quale si governeria Caffis con loro, duro et orgoglioso, li gioverà molto per mantener il presente suo posto.
Col bassà Cigala, le condition del quale sono note alle signorie vostre eccellentissime, ho passato con buoni et amorevoli termini, et con i medesimi sono stato da lui nell’occasioni corrisposto, professando egli antica buona volontà verso la Republica, et si deve nutrirla perché, se bene al presente par decaduto nel concetto del generalato del mare, in cui per la memoria del predecessore si trovava prima, essendo però degli più antichi visiri della Porta et del governo, l’haverlo ben affetto non può se non riuscir alle cose della Serenità Vostra di molto servitio.
Della medesima buona volontà è anco Cusseim bassà nessangì, cioè quello che segna li commandamenti del re, bossinese, desideroso della quiete di quei confini, nelle commotion dei quali succedute in mio tempo coi suoi buoni officii appresso il bassà, procurò di sopirli, et concorrendo per ordinario a lui, come a lor patriotta, quelli che in occasione di rumori vengono dal bassà di Bossina et dalli agà confinanti spediti con querelle alla Porta, egli moderando i loro empiti et accreditato col presente caimecan della medesima natione, come la sua opera è riuscita a me molto fruttuosa per l’agiustamento di quelli travagliosi negotii; così coltivandola coi debiti termini, riuscirà la medesima in tutti gl’altri che per giornata a quei confini possono occorrer.
Per ultimi sedevan nel Divano doi altri cognati del re, l’uno Chinan, l’altro Mustaffà, ambidoi poco prima del mio partir spediti quello in Grecia et questo in Natolia sotto titolo de inquisitori con suprema auttorità contra le violentie et tirannidi che si commettevano in quelle provintie, ma in effetto per cavar da esse grosse somme de denari per le guerre contra il Persiano. A Chinan, dovendo capitar a Durazzo, feci io, con commandamento efficacissimo del Gran Signore commetter la restitutione delle artellarie nauffragate dalle nostre galee, che si trovano in quella terra, et incaricarglielo a bocca con gran premura dal caimecan, et da lui n’hebbi ferma promessa, la quale intesi poi non haver havuto effetto per mancamento del concerto necessario stabilirsi prima da chi havea dalla Serenità Vostra la commissione del tempo e luoco all’essecutione predetta; et temo assai che il medesimo sia per succeder colla presente espeditione fatta dall’eccellentissimo signor bailo del capigì, per questo et per altri negotii raccomandati dalla Porta al sanzacco di Herzego, et in suo difetto al bassà di Bossina, a quali poco obbediscono quei di Durazzo, che si reggono da lor medesimi, sotto il governo di un emin, al qual carico tuttoché Giorgì caimecan havesse a instanzia mia eletto Sulficar agà per la promessa fattami di tal restitutione, et commessala efficacemente a Bechir, di grande auttorità tra loro, non poterono mai effettuarli.
Chinan, visitata la provincia, et estorta sotto varii prettesti grossa somma d’oro, consignata al suo ritorno al Gran Signore, s’avanzò nella sua gratia, onde è ben conservarselo.
Mustaffà, fatto in Asia le medesime et maggiori estorsioni, ma convertite per la maggior parte in sé medesimo, provò con la perdita della testa il sdegno di Sua Maestà.
Di Bairan, pur anch’egli cognato del re et visir alla Porta, havendo parlato di sopra, et trovandosi al mio partir bassà al Cairo, non occorre dir altro se non che se le doti che regnano in lui di prudenza, gravità, vigoria d’animo et di corpo non fossero macchiate da altretanta avaritia nel rapir per profonder et disipar, saria forse il più degno et capace di tutti gl’altri. Et io nel tempo che egli s’è fermato alla Porta l’ho reso benissimo affetto alle cose nostre, et fruttuoso ancora in varie importanti occorrenze.
Quanto sia grande la dignità et auttorità del muftì in quell’Imperio l’ho detto di sopra. Due l’hanno essercitata al mio tempo, l’uno chiamato [***], che in tutte le occasioni favorì li negotii et interessi di questa Serenissima Republica, la quale perdè un forte appoggio a quella Porta con la sua morte. L’altro Iaià effendi, succeduto in suo luoco, et che tuttavia vi continua, maggior di 60 anni, di maestosa presenza, et in concetto di gran peritia nella lor legge et d’integrità de costumi, unico et solo fra quei ministri grandi, co’ quali in tanto numero mi è occorso di trattar, che da me habbia ricusato presenti di veste o d’altra cosa di valor, pigliando solo alcune gentilezze per segno di buona volontà et dispositione, la quale però andai io nell’occasioni di modo nutrendo che in tanti ardui et difficilissimi negotii che senza il suo parere et auttorità non si diffiniscono, lo resi in fine capace e favorevole; tutto che per quello della galea di Bervis si commovesse sopramodo, et lo reputasse gravissimo, dicendomi in confidenza che se non fosse il rispetto et la consideratione di interromper una così lunga amicitia et pace tra la Porta et la Republica, et delle pessime conseguenze che dalla guerra tra loro ne succederiano, in questa occasione saria dalla sua conscienza et fede costretto a dar tutto diverso consiglio al Gran Signore da quello che faceva, credendo ben che se la prudenza della Republica metterà pensiero a quel che posson partorir attioni di tal natura, con altri concetti simili, validi et pregnanti, portati senza impeto, ma con forza et nervo grande, come è solito. Onde, aggiunta ai suoi consigli l’auttorità del grado et del concetto, hanno in tutte le risolutioni sempre gran forza, et però sarà servitio grande della Serenità Vostra il conservarselo ben affetto. Ho parimente parlato di sopra dell’offitio dei cadileschieri, principalissimo in quel governo, perché sono giudici supremi, et inapellabili in qualunque lite et controversia sopra ogni condition di persone, et in quelle ancora che concernono l’interesse del re medesimo, da che nasce la prettensione pratticata già et sostentata a mio tempo da loro et dalla Porta con tanto ardor, di giudicar quelli che nascono coi baili della Republica, ma reietta sempre da me, et homai abbolita nel modo ch’ho sopradetto poiché stato io sempre in così lungo corso d’anni et di negotii fermo et costante contra gl’enormi sforzi dei visiri et cadileschieri in non comparir mai alla loro presenza, conforme al segno imperiale da me ottenuto; sono finalmente a poco a poco declinati et rimossi da tal prettensione, intanto che Cussein effendi cadileschier della Grecia, nel fatto della galea fece al re sopra questo punto la risposta in scritto, che la Serenità Vostra ha inteso, con la quale, restando della propria confessione dell’istesso cadileschier chiaramente deciso, è del tutto posta in silentio.
Al mio partir lasciai il detto Cussein in quel carico; doppo intendo esser stato deposto et me ne duole, potendo io costantemente affermar alla signorie vostre eccellentissime non trovarsi hoggidì soggetto a quella Porta di più sincera et cordiale dispositione verso di esse, né che più si sbracci et riscalda nei loro interessi, né che nell’occasioni ardue et difficili sii riuscito di maggior servitio et frutto, poiché congiunta all’effetto et alla sincerità la estimatione et auttorità che tiene grandissima in quel governo, superando nella peritia delle leggi et di stato, di gran lunga qual si voglia altro, et adherendo quasi sempre il re medesimo ai suoi consigli; devesi la sua perfettissima dispositione verso la Republica, tutto che al presente masul nutrir et coltivar con ogni ufficioso termine, certi, se ben presto sarà reintegrato nel carico, et di quello di muftì ancora, et che anco senza di essi ritiene la primiera auttorità come fondata assai più nel valor che nel grado.
Io non so chi sia stato surogar in suo luoco, ma sia chi si voglia non sarà se non bene renderselo ben affetto, poiché regolandosi in quel governo le deliberationi delle cose di stato colle massime di religione, et essendo il cadileschier della Grecia giudice et deffinitor supremo di queste, viene anco in quelle la sua auttorità a poter molto.
L’uffitio di gran cancellier, come in tutti i stati così in quel de turchi, è molto importante, spettando a lui la segnatura di tutte le spedittioni et commandamenti, et stando del continuo a fianco et all’orecchie del primo visir, riesce molto necessaria al bailo della Serenità Vostra la sua amicitia. Per la corruttella di quei tempi, anche la mutatione di questi è stata frequentissima, altri deposti, altri puniti, et altri dall’impeto delle militie salvatisi con la fuga et con l’esilio; onde anco in questo, come in ogn’altro carico, mi è convenuto per il servitio della Serenità Vostra trasmutarmi in varie forme con soggetti di concetti et inclinationi molto diverse. Con tutti però ho spuntato negotii ardui et difficilissimi, et con l’ultimo, che poco prima del mio partir era partito per Persia con Calil primo visir, hebbi da travagliar assai nell’indurlo a fermar le lettere scritte dal re alla Serenità Vostra per il fatto della galea di Bervis; non credo però che egli hora esserciti quel carico, ma ben Mehemet effendi suo sostituto, che restò in Costantinopoli appresso il caimecan amato da lui, et che io lasciai verso le cose nostre molto ben disposto.
Giova medesimamente la buona dispositione dei defterdari, cioè camerlenghi, preposti all’esatione del denaro regio, anch’essi assidui per l’importanzaa del carico alle orecchie del primo visir, che sebene non haverebbe il bailo occasione di trattar con loro per altro negotio che per quello della pension del Zante di mille cinquecento cecchini che annualmente si paga; tutta volta nel bisogno urgentissimo di denaro che ha provato a mio tempo il Casnà del Gran Signore, del tutto esausto, et che necessitava li defterdari ad ogni inusitata et violante estorsione, ho convenuto io per diffender li nostri mercanti dalle loro vanie et violenze, haver a far purtroppo con loro, che non si vergognarono un giorno, sotto il regno di Mustaffà, mendicar da me et da gl’altri ambasciatori l’imprestido di 30 mille cecchini, detto sopra, non meno indegna che incredibile ansietà alla grandezza di tanto Imperio, in cui per l’estremità del bisogno si procedeva all’hora nell’esatione con tanto riguardo che quasi tutti che in molto numero essercitorno a mio tempo tal carico, furono chi nella vita et chi nei beni puniti. Se ben voglio credere che con la presente mutation dei tempi e delle cose, cessi ai defterdari la necessità di tal violenze, et al bailo l’occasione di haver a far con loro.
Il grado di agà di giannizzeri, capo supremo di quella militia, fu in tutti i tempi di quell’Imperio in summa esistimatione, ma nel mio in maggior che mai per l’adietro, et superior a quella d’ogni altro perché, sebene per il furor et insania delle dette militie dimostrata contra la vita del proprio re, havevano insieme scosso il freno dell’obedienza et del rispetto verso il loro capo, tuttavia parendo pure che ancora qualche ombra ne ritenessero, era egli si può dir il solo et unico refugio nelle lor violenze, nelle quali, seben tremante come gl’altri non osava con l’auttorità metter mano, valeva però alle volte con i preghi et con gl’ufficii per moderarle; et io, col mezo e favor di essi agà, sentito nell’occasioni sopra accennate dell’insulti de giannizzeri, ma questo sollievo che da qualunque altro, onde fruttuosa et più che necessaria mi è stata la buona intelligenza con loro. Ma per le quotidiane mutationi con successi veramente tragici che tutto il giorno accadevano nelle lor persone, sempre mai variabile et soggetta a gravi pericoli, infuriando ben spesso i giannizzeri contra quelli che ricorrevano al detto agà, il quale hora trovandosi insieme con loro alla guerra di Persia, né urgendo più i medesimi rispetti, cessa anche al bailo la necessità del suo favor, et di quello anco del seiman bassì, che rimane suo luogotenente alla Porta.
Sotto i passati re, che le cose di quel governo passavano con la debita forma et misura, utilissime riuscirono ai baili le amicitie dentro il Serraglio, hora dei capiagà, hora del chislar et hora d’altri che havevano le inclinationi di Sua Maestà, perché il nome di queste amicitie serviva come di freno a contener il primo visir in rispetto et riserva verso di loro, per timor che con tal mezzo non facessero pervenir dell’indoglienze alle orecchie di Sua Maestà. Nel bel principio del mio bailaggio, Ali primo visir per posseder solo la volontà di sultan Osman, et tirar ogni cosa a sé, lo indusse a levarsi dattorno il vecchio chislaragassì et il coza, di grande auttorità, nella sua tenera età, con quel re, il quale poi nella maggior divenuto altiero et pertinace, credeva a sé solo, et poco ascoltava alcuno; onde poco utili et valide riuscivano le amicitie di dentro. Sotto sultan Mustaffà quella della madre saria stata utilissima, quando egli fosse stato veramente re, ma essendo per la sua stolidità ogni cosa in podestà delle militie, l’auttorità della madre, seben valida, non era utile a cosa alcuna, et molto meno quella degl’altri.
Col presente sultan Amorat validissima et utilissima è stata sin hora quella della chiosè sua madre, ma essercitata da lei con tanta moderatione e sagacità che, dissimulando di possederla, difficulta grandemente l’adito di poter impiegarla, temendo pure in sé medesima di quei funesti successi che in condition de tempi molto più placidi successero in altre. Mentre governò Giorgì, al quale per il privilegio degl’eunuchi era permesso trattar personalmente con lei, che adheriva ai suoi consigli, et il re a quei della madre, bastava haver il medesimo Giorgì ben impresso. Doppo la morte sua, non è dubbio che l’auttorità della sultana madre, havendo fatto cader il governo in mano di Rezep, presente caimecan suo genero, è molto potente seco, et l’haverla ben disposta può nei negotii della Serenità Vostra giovar molto, quando però non vi s’oppongan li affetti et le contraditioni del capitan bassà, medesimamente suo genero, prepotente con lei a quelli di Rezep, et di qual si voglia altro, come tutti li ambasciatori esperimentassimo nell’elettione fatta da lui di Cusseim in bassà de Tunesi, che contraditta da nostri ufficii molto pieni et efficaci con tutti i ministri, et con nostro arz all’istesso re, favoriti et eccitati dal medesimo caimecan, l’haveriano senza dubio fatta anullar dal re come di un publico convinto corsaro, quando dalli uffici del capitan bassà subornata la madre, non havesse ella con i suoi legato le mani a Rezep et al re medesimo, in cui per quanto dal suo natural genio et instinto si va scoprendo, parmi potersi creder che non potrà declinar mai tanto, per qualche accidente, l’auttorità della madre seco, donna di quella prudenza et sagacità ch’ho accennato che non sia per poter in ogni tempo appresso il figliolo molto, onde habbia la Serenità Vostra eti suoi baili a far ogn’opera per haverla favorevole.
Sono, come ho predetto, i principali ministri di dentro il capiagà, che fa l’uffitio di maggiordomo maggiore, il chislaragà, di camerier maggiore, ambidoi eunuchi, quello bianco, et questo nero, carico l’un et l’altro di gran stima et auttorità per la facilità della presenza et dell’orecchia del re, per la quale da ciascuno è procurato et ambito il loro patrocinio. Il massacro che a mio tempo fu fatto dalle militie di molti di loro per il troppo abuso di tal facilità, ha documentato gl’altri di proceder in essa con freno et riserva maggior; onde quelli ch’io lasciai nei detti carichi assai poco s’interessavano nei negotii di fuori, et poco anco era fruttuosa la loro amicitia. Può esser però assai facile che, fattosi il re più frequente et dedito alle donne di quello che per la tenererezza dell’età si fosse all’hora, habbia il chislar preposto a questa cura maggior facilità et auttorità di prima; nel qual caso utilissima riuscirà la sua amicitia, come anco quella del capiagà, il quale tenuto da tutti in concetto d’huomo molto sincero et pio, fu per consenso della madre et di Giorgì fatto museip del re, che così chiaman quelli che per gratia concessa a pochissimi, d’eminentissimo favor o virtù, hanno libertà non solo di risponder, ma di promuover raggionamenti col re.
Per la medesima opportunità dell’orecchie della Maestà Sua, è grandemente stimato alla Porta il grado di bostangibassì, il quale capo supremo dei giardini et dei caichi regii, et delle caccie ancora, può in buona congiuntura dei piaceri et diporti della Maestà Sua passar seco de buoni ufficii, i quali, o sia l’animo dei principi nei piaceri più disposto, o il ministro di essi piaceri più grato, si vede che per il più partoriscono ottimo effetto. Onde è stato sempre costume dei baili della Serenità Vostra procacciarsi il favor di chi essercitava tal carica, et è se non bene continuarlo tanto più essendo scalino molto prossimo al capitaneato del mar, et di maggior facilità et di minor spesa conservarsi la sua amicitia, che non è con quei di dentro, la communication dei quali, a guisa di cose sacre, riesce dispendiosa et difficile.
Queste amicitie, che stimo ai baili della Serenità Vostra a quella Porta per il publico servitio de più fruttuose et necessarie, perché quelle d’altri agallari, e muti e nanni et di qualche donna favorita ancora, non essendo tanto ordinarie non occorre di parlarne, non si possono, come è ben noto alla Serenità Vostra conseguir né conservar senza dispendio, principal, anzi unico alimento delle amicitie turchesche, et senza il quale presto cadono et si scordano; tutto è mò, che i baili della Serenità Vostra, temperando con prudente adequata misura il zelo del servitio con quello del risparmio del denaro publico, procedino in cosa tanto importante con quella misura et riserva ch’è conveniente, et sopratutto stabilischino nel loro animo che la dignità et riputatione della Serenità Vostra, et il merito di lor medesimi, consiste in superar le difficoltà et spuntar li negotii senza spesa, con la forza dell’ingegno non con quella dell’oro, la qual anzi usata dai baili con larghezza et lubricità, pregiudica alla dignità, infiacchisce la ragion, snerva et indebolisce il negotio, che si deve principalmente sostentar col vigor della trattation et con la costanza dell’animo, come è stato principalissimo mio scopo nel modo di sopra accennato, giovando sommamente al buon fine d’ogni negotio con quei ministri l’haver per le sudette vie stabilito in loro un concetto grande di valor et di prudenza nel rappresentante di Vostra Serenità, et d’intrepidezza ancora; et nuocendo all’incontro le tittubationi et perplessità, et nell’intoppo de negotii ardui et difficili, metter pronta la mano a presenti et donativi per terminarli. Da che s’accresce anzi in loro l’ingordigia et l’insolenza, che quando sanno haver a far con chi non teme, o caglia, et tengono nel predetto concetto, procedono anch’essi con rispetto et moderatione, et finalmente si spuntano li negotii senza dispendi, et con aumento grande di stima et riputatione. Non dico già che il donar in certi tempi et casi non sia necessario, essendo tale il costume et l’uso di quel governo, che alcuno, o publico o privato soggetto non ne può andar esente, né senza ciò stabilirsi alcuna amicitia o appoggio, ma dico ben convenirsi farlo con gran misura et riserva, per via di gentilezza et di spontanea amorevole gratitudine, in corrispondenza del buon affetto et amicitia, senza porger mai minima ombra o sospetto di farlo per liberarsi dalle difficoltà del negotio, et per diffidenza di poter in altra maniera spuntarlo. Et con quei soli principalissimi ministri, il favor et amicitia de quali si conosca indubitamente utilissima, et il più delle volte anco con gentilezze di picciol costo che, date appositamente in congiunture et modi proprii, fanno ottimo effetto; con quei ministri particolarmente che, fatti masuli, possono molto facilmente risorger, coi quali in stato tale giova mirabilmente trattenersi con amorevole ufficio, potendo io affermare alla Serenità Vostra niuna cosa havermi conciliato più l’animo et l’affettione loro di questa, perché agitati dal continuo moto di quelle grandi et impetuose revolutioni, ch’a mio tempo seguirono, mi parse la condition di quei tempi larga materia di essercitar con quasi tutti i maggiori e più stimati, nella lor avversa fortuna, i predetti amorevoli ufficii, et di raccoglier nel ritorno della prospera, il buon frutto, a servitio degl’interessi publici che ho conseguito, ben dolendomi che le così frequenti mutationi di tanti primi visiri, suoi luogotenenti, capitan bassà, et altri, ai quali è solito di presentar seguiti nel corso di sett’anni del mio bailaggio, m’habbino posto in necessità di multiplicati dispendii, nei quali però mi son governato con altretanta riserva, et in modo che nella mutatione di tre re et due regine madri, nella quale celebrità non solo in Turchia, ma anco in Christianità abbundano le spese, la Serenità Vostra non ne ha sentita da me alcuna.
Il che sia detto dei donativi soliti a farsi a ministri grandi per spuntar gran negotii et conservar le loro amicitie, perché quanto a prettensori di rifacimenti per danni ricevuti da ministri o sudditi di Vostra Serenità, io non ho voluto mai, non ostante qual si vogli impeto o pericolo, o dai ministri o dalle militie medesime, consentirne alcuno, con che abbolito il concetto impresso in turchi che il bailo sia commesso della Republica, et obligato a risarcir i predetti danni, non sarà difficile con la medesima risolutione et costanza, stabilirsi sempre più nell’aquisto di tanto vantaggio fatto in molte occasioni confermar dai ministri et dal re medesimo.
Hora parmi poter sigillar questo discorso, che tocca le persone dei più principal ministri, che al presente trattano quel governo con due brevi ma vere et proprie considerationi per il servitio de publici interessi; l’una che sicome chiaramente si vede non produr più la Casa Otthomana nell’età presente di quei grandi et valorosi principi nel maneggio della guerra et della pace, che già fu solita, così altretanto si possa dir dei ministri, nei quali chiaro si mostra declinata et illanguidita quella virtù che fece da per tutto risonar la gloria di attioni molto illustri, et preclare dei lor predecessori, i quali supplendo molte volte col proprio valor alla debolezza et inertia dei principi, potero sostener l’Imperio in quella riputatione et grandezza che, per mancamento degl’uni e degl’altri, non si può al presente. L’altra ch’essendo solita la virtù negl’animi barbari rendersi superba et insolente, et l’inertia nei medesimi vile et codarda, da qui anco nasce che devono i baili della Serenità Vostra con moderni ministri portar i lor negotii con gran vigor e forza, stringendo però e rallentando con quella vicendevol e prudente distintione che conviene alla condition de tempi et dei soggetti, che come ho detto lasciai al mio partir verso questa Serenissima Republica molto ben disposti.
Hora dovendo io passar all’ultima ma più importante parte di questa relatione, che consiste nel scoprir le intelligenze et gl’interessi ch’hoggidì passano tra il re de turchi, et gl’altri della loro setta, et della nostra religione; onde in materia tanto grave si possa far in avantaggio publico fondato discorso. Cominciando dai principi christiani, dirò:
Che il sommo pontefice viene da Turchi stimato non per la grandezza del suo stato, o potenza delle sue forze, ma per la consideratione dell’auttorità con la quale, capo de principi christiani, possa, come altre volte è succeduto, unirli tutti contra di loro, sapendo anche essi molto bene per la diversità dei fini et interessi, esser quasi impossibile senza l’auttorità del pontefice una tale unione, della quale sola temono, reputandosi a tu per tu prepotenti ad ogn’uno. Per questo nell’ultime passate revolutioni et confusioni delle cose loro, stavano in gran pensiero che, considerata dal pontefice una tanta opportunità, la maggior che da gran tempo si fosse offerta a principi christiani di pigliar unitamente l’armi contra quell’Imperio, fosse finalmente con la sua auttorità per indurveli, et che aggiunta la guerra esterna alli mali intestini soprastasse la sua rovina, tanto più che nell’animo dei popoli viveva un’impressione fondata in presaggi et preditioni molto antiche, agiustate a tempi et accidenti da loro, che alludevano a un tale eccidio, né stavano senza sospetto per le prattiche altre volte passate tra i pontefici et altri principi christiani col re di Persia, che le sue mosse contra Babilonia in tali congiunture fossero di loro concerto; et li più prudenti et savii procuravano di imprimerne le militie per metter con tal sospetto qualche fren alle loro violenze. Ma veduto poi non solo non seguir tra principi la predetta unione, ma suscitarsi manifeste discordie et dissensioni tra di loro, et le maggiori corone et provintie in incendio di aperta guerra, attribuivano essi medesimi a gratia singolare del Signor Dio, che acciecati dalle discordie le menti dei principi, non sapessero discerner né abbracciar una tant’occasione, della quale però io mi prevalsi in avantaggio dei nostri interessi con imprimer nell’animo dei ministri grandi, ciò succeder per la costante risoluta volontà della Repubblica di conservar, anco in tempi tanto torbidi, sincera et inviolabile l’amicitia con la Casa Otthomana, senza porger mai né l’orecchie né l’animo a gravissimi eccitamenti et offerte degl’altri, conoscendo essi molto ben che per la potenza delle forze marittime della Repubblica, et per l’opportunità de suoi stati, senza il concorso d’essi, ogni loro sforzo saria riuscito vano, come per questa sola cagione di non haver voluto ella assentir al disegno, è successo, essagerando io con questi et altri concetti, il merito della Repubblica con quell’Imperio, la sincerità et costanza della sua antica et leale amicitia, et facendo della stima di essa et della potenza delle sue forze una grande impressione la quale, nell’urgenza de fastidiosi negotii, m’ha giovato non poco a ridurli, col debito decoro et avantaggio, al desiderato fine.
Né qui intendo dilatarmi nel dicorrer alle signorie vostre eccellentissime l’opportunità di quell’occasione, et se abbracciata da principi christiani con forze terrestri et maritime, quali effetti et con qual modo havesse potuto partorir, et chi di essi con maggior fondamento et speranza havesse potuto intraprenderla perché, passata l’occasione, il discorrerne sarebbe stato di poco frutto. Questo ben non devo tacer, che alla Porta si vivea con tal timor, che facendo nell’animi loro l’immaginatione, il caso, si trattava ben spesso tra i principali ministri di qual modo s’havesse potuto diffender l’istessa città di Costantinopoli da un assalto terrestre o maritimo, mentre si trovavan in tanta confusione e disordine. Consideravano non esserci re per la violenta morte di sultan Osman et per l’insensagine di Mustaffà; non governo, per l’uccisione dei maggiori ministri, fuga et spavento degl’altri; non difesa per la sollevatione et corruttella delle militie; l’armata impegnata in Mar Nero contra Cosachi che, scorrendo con 500 saiche, penetrarono col ferro et col fuoco sin nei borghi della medesima città. Il popolo numerosissimo, per il pessimo stato delle cose et per le continue tirannidi, mal contento et desideroso di novità; una gran parte di esso di religion christiana et hebrea, a quali non mancavano arme nelle proprie case, né prontezza di adoperarle, et quella che sopra tutte le cose reflettevano, un numero infinito di schiavi di Russia, che presi ogn’anno da Tartari nella Polonia, mandati a vender a Costantinopoli, comprati da Turchi et abbracciata la lor setta, più con l’apparenza che con la volontà, sparsi indifferentemente per tutti li serragli et case d’ogni condition di persone, piccioli et grandi, et la maggior parte per il buon servigio che prestano ai patroni turchi, alieni per natura dai travagli et cure familiari, con tutto il maneggio nelle lor mani, et quel che più importa, congiunti con Cosachi per patria, per sangue et per la religione nutrissero secreta intelligenza con loro, o almeno dispositione tale che in tanta confusione et moto, a ogni strepito dei medesimi Cosachi in Mar Nero, et d’armata christiana nel Bianco, fossero pronti a sollevarsi contra i patroni turchi nelle proprie habitationi, et levandoli di vita, et fatti patroni delle richezze et dell’armi, unirsi con li Greci della medesima lor religione, come ho detto numerosissimi in quella città, la quale vastissima et senza alcuna cittadella o forte che la batta et predomini, saria da tanto moto confusa e distrutta in modo che comparendo le sopraditte armate da ambi doi mari, converria certamente correr manifesto pericolo; la consideratione del quale tormentò, come ho detto, per qualche tempo l’animo di quei ministri, sin tanto che pervenutogli l’aviso dei dissidii della Christianità, si riempirono di speranze di sostentar il tremante stato di tanto Imperio, svanendo per la medesima causa parimente il sospetto del concerto dei medesimi principi nelle mosse del Persiano, et in quelle dell’emir di Saida, che fatta nell’istesso tempo contra li bassà di Tripoli et di Damasco, temevano per le continuate sue intelligenze et prattiche con Spagnoli et altri principi nascessero dal medesimo concerto, et se bene l’aviso di una congregation stretta dal pontefice sotto nome de Propaganda Fide, portata alla Porta con varie interpretioni, li tennero in qualche sospetto, vedendo poi risolversi ella in speditioni di religiosi, et cose simili, et con disegni di ampliar più la potestà spiritual che la temporal, ne tennero poco conto, parendo loro esser in sua potestà, sempre che gli piacesse, col castigo di quei religiosi ovviar a qualunque disordine; il che andavano differendo per non irritar in congiunture tanto contrarie il sdegno del pontefice et dei principi di Christianità, come dirò a più proprio luogo.
Tra li due imperatori, austriaco et otthomano, posso dir che nel mio bailaggio non è stata mai ferma o sicura né la pace né la guerra, ma continue gelosie a confini, et trattationi alla Porta senza conclusione. L’Austriaco, travagliato dalle guerre interne della Germania, procurava grandemente la pace; sultan Osman, d’animo feroce et inquieto, inclinava alla guerra, maggiormente doppo la mala prova di quella di Polonia, impresso che da Cesare fosse stato quel re con buon numero de genti socorso, et non è dubio che se l’impresa contra Polachi havesse havuto migliori eventi, haveva egli forse anco senza tornarsene a Costantinopoli mosse subito l’armi contra l’imperator. Il quale perciò, et prima et doppo la detta detta guerra, fece ogni sforzo alla Porta per divertirla, procurando Cesare Gallo suo ambasciator, et altri adherenti a Spagnoli, con uffici et promesse grandi accender maggiormente l’animo d’Ali primo visir concitato contra la Repubblica, per le cose ben note, le quali però attraversate dai miei non fecero affetto; anzi giunta di quel tempo alla Porta una solenne ambasciata spedita dal re palatino, et altri principi et stati d’Alemagna confederati contra l’imperator, con richi presenti, riportarono, con lettere proprie di sultan Osman, promesse di grandi aiuti, che senza la sua morte et le rivolutioni da essa seguite, si sarian adempite. Ma Cesare, valendosi di tanta opportunità che con sì gravi accidenti di quell’Imperio gl’apriva la fortuna, per stabilir con la Porta un’avantaggiosa pace, ispedì con gran celerità et presenti un ambasciator grande, il quale, benché non perdonasse a spesa et opera alcuna per conseguirla, puotero nondimeno tanto gl’uffici delli ambasciatori d’Inghilterra e Stati residenti alla Porta commessegli dai lor principi, et secondati con la debita cautella dai miei, conforme il prudentissimo ordine di quest’eccellentissimo Senato, che nonostante li successi tanto prosperi d’Austriaci et li avversi de Turchi, dentro et fuori, per l’intestine commottioni, et per la perdita di Babilonia grandemente costernati, non li lasciassimo mai divenir all’accettatione della pace, instata con tanta efficacia da Spagnoli et Imperiali, per rendersi tanto più pronti nelle guerre di Valtellina ai danni degl’altri, i quali per tanto più divertir, favorendo con i medesimi cauti uffici li generosi concetti et movimenti di Betlen Gabor a confini d’Ongheria, inducessimo la Porta ad assistergli con diversioni tali che fu costretto Valestein uscir con tutto l’essercito d’Alemagna et condurlo in Ongheria, con quel sollievo del re di Francia et degl’altri che è ben noto. Le cose de quali, et dell’imperator, non sariano certamente dove hoggidì si trovano se al principe Gabor fossero state dai doi gran re osservate le promesse, dal mancamento delle quali restò di maniera esulcerato il suo animo, che al creder mio difficilissimo sarà, nascendo l’ccasione, reacquistar seco la perduta fede per prevalersi delle sue mosse, importanti per sé medesime, et molto più per quelle de Turchi, che se tiravan dietro a una potente diversione delle armi imperiali da chi ha cagione di temerne; et nondimeno hebbero forza li predetti nostri ufficii, sin che io mi fermai alla Porta, d’impedir ogni conclusione di pace tra l’imperadori predetti, et ciò senza minima ombra o sospetto dell’Austriaco che io vi tenessi la mano, facendolo con destrezza et cautella tale che il Lustrier, residente di quella Maestà, a nome di lei più d’una volta mi ringratiò del non mescolarmi in tali maneggi. Hora, essendosi doppo la mia partita dalla Porta conclusa et seguita la detta pace con reciproca speditione d’ambasciatori per la ratificatione, non è dubio che tanto maggior vantaggio ne vengon a sentir da essa le cose di Cesare et de Spagnoli, quanto alla continuatione della guerra ne sentivan preiuditio, né meraviglia se l’uno in Alemagna e gl’altri in Italia procedino armati con le violenze che si vedono, né nei movimenti d’arme, che sopra stano all’Italia, nei quali per la salute propria è costretta la Repubblica d’entrar, heverebbe ella da temer di quei di Cesare a suoi confini, quando fosse continuata a quei di Turchi, et del principe Gabor una tale diversione, o almeno nella capitulatione fosse stato inserito quell’articolo toccante la sicurezza di interessi della Serenità Vostra, che da lei mi fu commesso et io n’hebbi da quei ministri ferma promessa.
Da questa conclusione di pace procurata con tanta insistenzia et calor da Cesare, et da suoi principal ministri, si può molto ben cconoscer qual fede prestar si debba al desiderio che dimostrano, et alle proposte di lega contra Turchi che fanno a Vostra Serenità, quanto più vantaggiose per lei, altretanto piene di falacia et d’artificii, per generar nell’animo de Turchi sospetti et diffidenze della sincerità dell’amicitia della Repubblica, et se non altro privarla di quei sussidi di vettovaglie et genti che può ricever da quell’Imperio nelle correnti angustie, et per tentar con allettamenti di grandi aquisti et di nuovi traffichi delle nostre pannine per l’Alemagna, divertirla dall’applicatione ai presenti gravissimi atentati da Spagnoli contra l’Italia, quali arbitri assoluti della volontà et genio dell’imperator, et artefici di queste machine, le fanno senza dubio muover dalla Maestà Sua alla Serenità Vostra per i fini predetti; come altresì quelle dei timori delle mosse d’armi d’un imperator vittorioso e potentissimo contra di lei, le quali seben meritano certamente il riflesso et consideratione debita alla prudenza et maturità di questo sapientissimo Senato, non devo io all’incontro a questo passo tacerle quello che in questa materia di mosse et armi di Cesare, la lunga esperienza di sei anni spesi a quella corte per publico servitio, in tempo de che medesime si maneggiavano, m’ha insegnato. Et è che sicome non si può negar che le armi del presente Ferdinando, Cesare nella Germania, non siano grandi et potenti per il numero et il valor de soldati veterani, per la virtù et peritia de capitani, et per la prosperità della fortuna che le accompagna, con la quale dilatatele sin negl’ultimi termini di quella provincia, superati e vinti tutti i suoi nemici, par si sia reso non solo di nome ma di effetto vero imperator di essa, et che aumentato tanto di ambitione quanto di potenza, fosse per vogliersi contra l’Italia con occasione delle cose di Mantova et di Monferrato per sostener le proprie ragioni, come soprano di quei stati, o l’armi de Spagnoli, già mosse contra di essi, da che possi, non senza gran ragione, la Serenità Vostra dubitar nei suoi lunghi confini seco le prime invasioni delle sue armi.
Così dall’altra parte, chi ben considera et bilancia i contrarii grandi che ripugnano a una tale vera risolutione, la trova molto ardua et difficile da effettuarsi perché, non havendo egli stabilite et assicurate le sue vittorie, o con la benevolentia dei popoli o col freno delle cittadelle, che sono le vere et le proprie sicurezze degl’acquisti, è costretto mantenerli con la sola forza di quell’armi con le quali li ha fatti. Onde quando volesse levarle, o diminuirle, i popoli e principi da lei oppressi nella religione et nei stati, sciolti da quel morso che con tanta violenza sin hora li ritengono, torneriano senza dubio alle commotioni et ribellioni di prima; il che molto ben conosciuto dal general Valestain, non è meraviglia se apertamente si lascia intendere che per le guerre d’Italia non concederà pur un fante; et certa cosa è che dipendendo quell’armi molto più da lui che dall’imperator, che non le paga, non potrà disporne senza il suo assenso, il quale non è anco credibile sii per prestar, per non diminuir della sua auttorità et grandezza, fondata nel comando di quell’armi, et ben conscio delle difficoltà molto maggiori che incontreria nel sostentarle in casa d’altri, di quello che al presente per il genio di quella natione incontra in casa propria senza denari, dei quali nell’imperator il mancamento è grandissimo, et nei Spagnoli, per le cose che hoggidì corrono, non picciolo.
S’aggiunge il timor dell’armi dei re di Dania et di Svetia, et delle terre e principi a loro adherenti, che sostenute da quelle d’Inghilterra pacificata con la Francia, rinnoveriano in Alemagna un maggior incendio. Le gelosie e diffidenze de principi della lega cattolica, et di Baviera in particolare, nel disarmarsi primo la risolutione di Cesare di ricuperar l’Austria nelle sue mani, et la impossibilità di esborsar il denaro da lui preteso; l’invidia dei medesimi principi della troppa potenza dell’imperator, et le continue querelle delle violenze del suo essercito; le voci di reduttioni et colloquii tra loro; et finalmente la soprastante elettione di re dei Romani pretesa da Cesare per il figliolo re d’Ungheria, et da l’arciduca Leopoldo per sé medesimo. Cose tutte che mettono in necessità l’imperator di continuar armato nell’Alemagna come si trova, et distornato dall’implicarsi in nuove guerre fuori di essa, concorrendovi pur anco qualche sospetto delle cose de Turchi, per la poca fermezza et stabilità dell’altre capitulationi concluse tra loro, più alterabili nella presente per la violenza de Cesarei nell’avantaggio delle conditioni estorto dalle avversità de Turchi, li quali sollevatisi assai con gl’ultimi successi della debellatione d’Abbasà et mutatione del Tartaro, potrebbono ancora intorbidarla, che saria poi il totale et sicuro ritegno d’ogni movimento d’Imperiali contra questa provincia.
Nel medesimo tempo che dall’imperator si procurava con gran caldezza alla Porta la rinovatione della Pace. Si procurava parimente dal re Cattolico l’introdutione delle tregue seco, non per vie disimulate et secrete come per l’adietro, ma espresse et patenti, che restorono anch’esse dai predetti uffici delli ambasciatori et miei sturbate nel modo di sopra rappresentato. Le cause apparenti che indussero Spagnoli in tanto scompiglio delle cose de Turchi a tali instanze, furono senza dubio per trovarsi liberi nelli affari d’Alemagna et d’Italia per le cose di Valtellina. Dall’hora correvano et per attraversar i negotii et interessi di Vostra Serenità, con aumento grande di spesa et di travaglio. Ma se ne scopriva inoltre una più cupa e recondita, che refflettendo essi nel stato tanto torbido di quell’Imperio et nell’opportunità che potevano nascer da profittarsene con insidie et macchinationi, cercavano con questi maneggi et prattiche di tregue aprirsi la via all’introdutione d’un ambasciator alla Porta, et d’altri ministri in varie parti di quell’Imperio, per poter con le corruttelle et arti solite andar disponendo le cose all’opportunità predette; le quali, per le dipendenze che nutriscono in molte parti dell’Imperio, non stimavano difficili, et che insinuate da noi a quei ministri causarono la esclusione di tali prattiche, la consideration delle quali deve ammonir et eccitar la solita prudenza di quest’eccellentissimo Senato ad applicar al presente più che mai il pensiero in far buoni et saldi fondamenti alle sue armate et forze maritime, quanto più si vede quelle de Turchi andar declinando per haverle pronte alle occasioni che potessero nascere nella piega di quell’Imperio et nei mari et luochi connessi a quelli della Serenità Vostra per ogni rispetto proprii più di lei che di qual si voglia altro. Ma per li medesimi osservati et insidiati da Spagnoli, che fariano ogni sforzo per impedirli a lei et tirarli in loro; et non è dubbio che il prepotente sul mare prevalerebbe l’altro, et ogni aquisto per Spagnoli saria alle cose nostre di sommo preiuditio.
Sono molto ben note alla somma vigilanza delle signorie vostre eccellentissime le prattiche et adherenze loro nell’Albania, Morea, Bossina, in molte parti della Grecia et sino nell’istessa città di Costantinopoli col mezo d’Hebrei, Ragusei et altri loro adherenti; il commodo et il fomento ch’a ciò ricevono dall’istessa città di Ragusi; le dipendenze che nutriscono in varie isole dell’Arcipelago, particolarmente in Scio, divotissima al nome loro; il credito procurano aquistarsi in tutte l’altre, con buoni trattamenti quando vi sorgono le lor galee; il disegno di costruir un forte nel porto di Milo, molto capace et opportuno; le prattiche coll’emir di Saida di sorprese nel regno di Cipro et d’imprese di Terrasanta, et altre cose tali che ben dimostrano li pensieri de Spagnoli sopra il presente stato di quell’Imperio, et chiamano la prudenza delle signorie vostre eccellentissime ad haverci sopra li suoi tanti interessi il dovuto riflesso, et tanto maggior quanto che con grande artificio procurano nasconder et dissimular tali loro disegni, ricercando con modi indegni et insoliti da Turchi le tregue, in tempi che per la loro declinatione potevano anzi essi prettender d’esser ricercati, né desiderarsi da loro più opportuni per invaderli con l’arme, stante massime la proffessione del re Cattolico di perpetua irreconciliabile inimicitia e guerra con quel de Turchi. Il merito e maggioranza che perciò ne prettende, et li emolumenti grandi che sotto tal prettesto ne cava dalla Santa Sede, e pur s’è osservato che forse mai più per l’adietro sono andati Spagnoli tanto ritenuti in provocar Turchi con l’offese et con l’armi, scordatisi sino dell’ingiurie et danno poco prima ricevuto dalla loro armata nel sacco di Manfredonia, nel cuor de suoi stati d’Italia; il che, oltre la cause tocche di sopra, non può esser proceduto da altro che dalle macchinationi predette di tener sotto prettesto di quiete involti i Turchi nei loro disordini, et la Repubblica divertita dalle gelosie et pensieri alle quali essi stano intentissimi, et si vuole anco fomentino con denari, col mezo del re di Polonia, le invasioni de Cosacchi in Mar Nero, non solo per la diversione dai lor danni dell’armata turchesca nel Bianco, ma anco perché con la continuata dissuetudine et absenza delle dette armate possino essi negl’animi di quei popoli scordatisi quasi di esse, andar stabilendo et maturando meglio le occasioni ai predetti disegni.
Tali furono li artificii et i mezi usati da Spagnoli con Turchi nel tempo del mio bailaggio, per i fino ch’ho predetto, i quali tuttavia militando più che mai al presente per i moti d’armi concitati da loro in questa provincia, non è senza sospetto che debbino riassumerli con la Porta, col ravvivar le prattiche delle ditte tregue, massime con l’occasione del stabilimento di quelle con l’imperator et col mezo del suo ambasciator spedito alla Porta, come pur in altre simili occasioni sono stati soliti; nel qual caso è da tener per certo che ressiedendo al governo del medesimo Rezep caimecan, il muftì et altri, con l’auttorità del quale furono da noi all’hora interrotte et reiette le dette pratiche, l’istesso con mezo delle prudenti et savie trattatione dell’eccellentissimo signor bailo Venier sia per succeder al presente con quell’avantaggio dell’interessi della Serenità Vostra, et dell’Italia, ch’è manifesto, tanto più se uscendo l’armata turchesca, come è pur voce et desiderio del capitan bassà, nel Mar Bianco, saran costretti Spagnoli a divertir buon numero delle lor forze in altre parti.
Quattro ambasciatori de principi christiani rissiedono per ordinario alla Porta, come rappresentanti principi con quali ella conserva buona pace et amicitia: Francia, Inghilterra, Venezia et Stati.
Con la Francia passano Turchi assai buona dispositione, non havendo per occasione de confini materia di disgusti et di controversie. Stimano la potenza di quel regno per la memoria dell’antico valor nell’imprese di Terrasanta et nell’istessa città di Costantinopoli, onde chiamano tutte le nationi occidentali col nome de Franchi, ma le stimano anche più per il contrapeso che ella fa alla potenza di Spagna, essendo anco a loro note l’emulationi et gare tra quelle corone et l’essersi sotto sultan Suleiman et Franceso primo unite le loro armate contra la Spagna, rammemorando inoltre certe istorie di maritaggi tra la casa di Francia et l’Ottomana, per il quale si fan parenti, et chiamano quel solo re tra gl’altri christiani col nome di padisa, che vuol dir imperator. Nascono con tutto ciò ben spesso tra Francesi e Turchi molti disgusti per occasione dei loro traffichi in varie parti dell’Imperio Otthomano, dove dall’avaritia de ministri sono vessati, come tutti gl’altri; ma la più commune et violente cagione nasce dalle depredationi dei corsari di Barberia delle loro navi et saetthie, che molto ricche di denaro et di pannine frequentano troppo più di quello saria servitio dei nostri il comercio del Levante, di che l’ambasciator di quel re ne fa gravi et continue querelle alla Porta, ma senza frutto, come tutti gl’altri, anzi con minor conto de Turchi doppo che, nonostante l’affronto grande fatto da loro a monsignor di Sansì, il re in luoco di risentirsene, come Francesi gagliardamente iattavano, inviò il presente Così suo sucessore, che condotto seco moglie e figlioli, ha fatto tanto più insuperbir Turchi, et credere siano francesi per antepor la continuatione del commertio et dell’amicitia a qualunque ingiuria, et l’hanno in più occasioni dimostrato verso il medesimo ambasciator, il quale, per altre sue poco prudenti operationi, si trova caduto a quella Porta in molto disprezzo. Et è veramente cosa degna di riflesso che li ambasciatori di Francia alla Porta, contra quello ch’io ho esperimentato ad altre corti, non corrispondino ai baili di questa Repubblica con quella confidenza ch’io ho procurato d’andar nutrendo, et che forse più che altrove gli staria ben, anzi se gli dimostrano ben spesso nelle occasioni contrarii. È vero che essendo gl’interessi et i rispetti della Serenità Vostra con Turchi molto diversi da quelli dei re di Francia, non può né conferisce al bailo secondar sempre li humori dell’ambasciator, che per il più, conforme al genio della natione, violenti et impetuosi, causano non l’accomodamento ma la rovina de communi negotii; onde ben spesso è necessitato il bailo schivar de unirsi seco, et trattarli da sé solo, et quasi sempre con miglior evento che unito con l’ambasciator, il quale prettendendo che a sé solo tocchi la protettione dei santi luochi di Gierusaleme, delle chiese et religioni di Pera, et d’altri luochi di quell’Imperio, non può tolerar che con l’auttorità del bailo si spuntino in servitio d’essi le cose che con la sua non può spuntar, donde hanno poi origine le tante novità che in questi propositi per via di Roma va egli tentando con erettione di suffraganeo in Pera, introduttione di novi ordini de religiosi, missione de medesimi in molte parti dell’Imperio, con manifesto pericolo di grave scandalo e detrimento della cattolica religione. Ma quello che apporta maggior meraviglia è il non vedersi nell’ambasciator, negl’affari che toccano all’interesse commune di conclusion di pace con l’imperator, o di prattiche di tregue con Spagna, quel calor nel divertirli che pareria conveniente, et che ho io veduto nell’ambasciatori d’Inghilterra et dei Stati, anzi non tacciutomi quanto alla predetta pace non tenir egli dal suo re ordine alcuno, et so d’haver, quando ella alla Porta si pratticava, avisato con buon fondamento Vostra Serenità esser stati da lui consigliato il caimecan a concluderla, et non dar orecchie a suggestion d’altri che per proprii interessi la dissuadevano. Questo è certissimo, che tutte le spie et adherenti a Spagnoli et Imperiali che si trattengono in Costantinopoli usano confidenza con l’ambasciator di Francia et che le loro lettere passano sotto i suoi pieghi, per il più di smisurata grandezza, et spesa a Vostra Serenità, che con ciò viene a comprarsi molto caro il suo proprio diservitio, poiché tutti li avisi delle lettere di costoro tendono principalmente al danno et preiuditio dei suoi interessi, et pur ogni diligenza che, conforme alli ordini della Serenità Vostra, s’usa dal bailo per il pronto ricapito de suoi pieghi non basta a contentarlo, come anco nel resto. Né è da dubitar che l’ardente protettione che vogliono li ambasciatori di Francia tener delli gesuiti in Pera, et in altre parti di quell’Imperio, et la mala natura di coloro darà sempre materia di disgusti e per l’avvenire tanto maggiori che si veggono restituti.
Procura l’ambasciator con ampliar assai alla Porta le vittorie del suo re contra Ugonotti riporlo appresso Turchi in concetto di bravo et bellicoso, ma non portando la fama quel grido attorno delle guerre interne, che è solita delle esterne, et pervenuto alle loro orecchie l’esito di quelle di Valtellina, preiudicava al concetto; con tutto ciò stimeranno sempre assai Turchi l’amicitia di quella corona, et hora tanto più che per la declinatione delle cose loro sono neccessitati conservarsi le antiche buone intelligenze et amicitie.
Il nome degl’Inglesi saria per la lor distanza in poca consideratione de Turchi se non fosse l’occasion de traffichi, per i quali le scale di quell’Imperio sono da loro assai frequentate, et particolarmente quella di Costantinopoli dove di numero, et forse anco di negotio superano ogn’altra estera natione, et alla quale comparendo ben spesso li lor poderosi vascelli benissimo armati d’huomini et d’artiglieria, et ornati di vaghi navali apprestamenti alletano gl’occhi et gl’animi de Turchi, et talvolta anco dell’istesso Gran Signore, che dal suo Serraglio li vede entrar e uscir con molto maggior pompa et celebrità che quelli delle altre nationi. Da che sultan Osman dimandandone un giorno al bostangi bassì, che si trovava seco nei giardini, hebbe egli, amico dell’ambasciator, occasione d’informarlo di molte cose in essaltatione delle forze et potenza maritima di quella natione; doppo di che si vide poi il medesimo ambasciator, che al suo arrivo alla Porta ricevè dai ministri molti disgusti, assai meglio trattato di prima. Viene però egli mantenuto a costo de mercanti, senza alcuna spesa del re da cui gli viene impartito il titolo et la lettera credentiale; et mi sovviene che più d’una volta dal già re Giacomo, padre del presente, mi fu detto tener contra sua voglia ambasciator alla Porta, et per solo rispetto de suoi sudditi che trafficano in Levante; anzi m’aggiunse in confirmatione della sua alienatione da quell’amicitia, che in evento d’una lega de prencipi christiani contra Turchi, egli sarebbe il primo con tutta la potenza dei suoi regni. All’incontro ho sentito a discorrer da ministri turchi che non potendosi tra principi christiani formar unione contra loro senza l’auttorita del pontefice romano, et trovandosi quel regno distratto dalla sua obedienza, non sia per entrar mai nella detta unione; et su questo fondamento tengon forse per più stabile et sicura l’amicitia degl’Inglesi che quella degl’altri, vedendo massime sumministrarsi dagl’Inglesi alla Turchia quantità grande de stagni, piombi, polvere, armi et ogn’altra cosa che per uso della guerra produce quell’isola; et dall’altre nationi christiane gli vien denegate, onde mancando per la distanza l’occasione delle contese, et nutrendosi col comertio quella dell’amicitia, è da creder sia per continuar tra di loro. È vero che per i danni dei corsari di Barberia et per l’estorsion dei ministri turchi alle scale, sentono anco gl’Inglesi detrimenti grandi; ma quanto a corsari assai minori degl’altri per due rispetti, l’uno per le capitulationi che senza tanti riguardi hanno stabilito coi medesimi corsari per sicurezza della navigatione, la quale passata sin hora sotto il solo nome di mercanti, al presente s’intende pur esser stata pubblicata in Inghilterra sotto quello dell’istesso re, senza riguardo in ciò al decoro della sua dignità, nel capitular un re potente et grande con corsari soggetti ad un altro re col quale tiene chiara et espressa capitulatione che l’obbliga a contenerli. L’altro per la potenza de vascelli inglesi, che deffendendosi bravamente in mar dagl’assalti de corsari, et reprimendo il più delle volte con gran valor le lor violenze, non ardisono attaccarli; onde navigano molto più sicuri et immuni degl’altri, et dei nostri in particolare, che per cagione del tutto contraria, appena scoperti et invasi restano senza combatter dei medesimi corsari certissima et inevitabil preda.
Tra li ambasciatori di Francia et d’Inghilterra alla Porta passano per ordinaro emulationi et diffidenze grandi per causa di competenza, sostentata quivi dagl’Inglesi con maggior ardor che non ho veduto farsi da loro ad altre corti, havendomi più volte il cavalier Rho, ambasciator inglese, affermato tener risoluto ordine dal suo re passato, et presente, di non cedergli la precedenza; et all’incontro il signor di Cesì ambasciator di Francia, dal suo, di mantenerla per ogni modo. Da che nasce che non potendosi per tali competenze unir insieme tutti quattro li ambasciatori per trattar li affari et interessi communi con quei ministri, perdono alcuni d’essi di quel vigore che da tal unione riceveriano, la quale sotto il presente ambasciator di Francia, come si vede, si renderà molto difficile per la durezza del suo trattar con ogn’uno, diverso assai da quello delli ambasciatori inglesi residenti a mio tempo, che per espressa commissione del suo re, molto ben essequita da loro, han trattato con i baili della Serenità Vostra con ogni confidenza; et io posso affermare esser state dal cavalier Rho con gran displicenza sentite le contese tra il suo et nostro console in Aleppo per prettension di cottimo inanzi la giustizia turchesca; et tutto che si trattasse del suo proprio interesse et ne fosse da quel suo console grandemente stimolato, non volse attaccar meco alla Porta tali contese, procedendo sempre in questa et in ogn’altra cosa con gran riserva et rispetto; et nelle prattiche delle tregue con Spagna et pace con l’imperator, dette di sopra, con caldezza et con sincerità molto dissimile dalle cautelle del francese, dovendosi particolarmente attribuir a suoi efficaci ufficii le mosse del principe Gabor unitamente con bassà di Bossina a confini d’Ongaria, et li buoni effetti che a servitio commune delle cose di Germania et d’Italia all’hora ne derivarono.
Sono appena vint’anni che s’è stabilita amicitia tra la Porta et li Stati dei Paesi Bassi, con la introdutione d’un loro ambasciator residente chiamato il signor d’Agà, che tuttavia vi continua. Costui, con la sua industria et opera raffinata in così lunga esperientia, ha molto avanzato il concetto et la stima appresso Turchi della potenza di quei Stati, corroborandola principalmente con la guerra di tant’anni continuata contra Spagnoli, dalla quale divertiti non hanno potuto travagliar con l’armi quell’Imperio, massime nelle ultime sue turbolenze, con che va egli esaltando il merito de suoi Signori con la Porta et con i suoi ufficii ben spesso eccitandola ad una simile corrispondenza, col tentar anch’essi alcuna cosa contra Spagnoli, o almeno restabilendo le loro potenti armate nel Mediterraneo, tenerli ingelositi, et mostrandosi il medesimo ambasciator nei suoi ufficii con quei ministri scopertamente contrario non solo all’interessi di Spagna, ma a quei dell’imperator, re di Polonia et principi di quel partito; et all’incontro, molto ardente et favorevole a loro nemici, s’è aquistato fede et credito con Turchi, tanto più che possedendo la lingua s’esprime da sé medesimo con loro, con suo gran vantaggio. Onde nelle trattative del principe Gabor, et degl’altri uniti in Alemagna per haver l’appoggio de Turchi contra l’imperator, fecero sempre capo seco; et diede egli il principal impulso alle mosse del bassà di Bossina et del detto principe, anzi fece coi suoi ufficii ogn’opera meco di persuader la Serenità Vostra a concorrer con denari in sovvegno d’esso prencipe, o almeno con quelli che in virtù della capitulatione lei era tenuta a contribuir a suoi Signori, che ne sarian contenti per il sevitio grande che risultava alla causa commune dalle dette sue mosse. Fu l’aviso di quella capitulatione et la lega tra la Repubblica et quei Stati inteso alla Porta con vari sentimenti. Quelli che si persuadevano esser principalmente drizzata alla sicurezza dell’una et dell’altra contra la potenza del re di Spagna, la lodavano assai; altri più oltre speculando che un giorno potesse valer contra lor medesimi, vi facevan molto riflesso per la consideratione delle armate pericolosissime di vascelli tondi et di galee che una tal unione potria metter sul mar, con operationi et fini tra di loro sinceri et conformi, senza le gelosie et insidie che prevalsero nell’altre e sturbarono contra d’essi importantissimi effetti. La qual consideratione militando contra quella che hoggidì vive in Turchi, che tra il re Cattolico et la Repubblica siano hormai passate tant’oltre le gelosie et diffidenze, che non habbia più a seguir unione delle loro volontà et forze sul mar come per l’adietro, et conseguentemente quelle de Turchi senza quel potente contrapeso. L’ho conosciuta per la riputatione e per il concetto giovevole all’interessi di Vostra Serenità, mentre massime dell’ottima corrispondenza che in tutte l’occasioni passa tra i baili della Repubblica et il detto ambasciator, resta presso Turchi molto ben confirmato.
Provano anco li Fiamenghi alle scale di quell’Imperio l’estorsioni dai ministri et nel mar li danni dai corsari di Barberia che tutti gl’altri, non ostante diverse capitulationi passate tra loro; da che nasce che il loro traffico con la Turchia va del continuo diminuendo, né so veder altra cagione che potesse a qualche tempo interromper quell’amicitia, mentre massime continuavan la guerra con Spaagnoli, alla qual non mancano i ministri della Porta di tenerli eccitati. Portano anch’essi con le lor navi in Turchia, con la medesima licenza che gl’Inglesi, molti apprestamenti militari, conché, et col medesimo riflesso di alienatione dal pontefice et da una lega de potentati christiani contra di loro, che dipendesse dalla sua auttorità, viene a farsi l’amicitia di quei Stati con la Porta più acetta et durabile.
Il re di Polonia non resciede per ordinario soggetto alla Porta con titolo di ambasciator, ma ben spesso vi si trova alcuno con titolo di nuntio, per le minori occorrenze come per le maggiori, di conclusion di pace o di tregue, vi spedisce quel re per decreto della Dieta un ambasciator con titolo di Grande, con molta pompa, come a mio tempo fece il duca di Sbaras per la pace di Cottin, e quella guerra seguita nel principio del mio bailaggio; come avanzò grandemente appresso Turchi la riputatione delle forze di quel regno, così fece chiaramente conoscer la sua potenza più atta d’ogn’altra a resister et rintuzzar la turchesca, non havendo un essercito numerosissimo di più di 600 mille, con la propria persona di sultan Osman, potuto mai spuntar le trincere di Cottin diffese dal Polacco, non maggior di 100 mille; onde fu necessitato Osman abbracciar la pace et partir con quella indignatione contra le sue militie, che fu la prima et precipua cagione della sua rovina. Tutto il punto della quale pace, consistendo nel contener l’uno li Cosacchi et l’altro li Tartari, dall’infestationi, ambi doi difficilissimi, l’isperenza di tant’anni ha dimostrato non potersi tra Polacchi e Turchi promettersi mai lunga et sicura pace, e tanto meno al presente che perduta da Tartari per le cose successe a mio tempo il rispetto et l’obedienza verso la Porta, tant’è luntano che sia in sua potestà di contenerli dall’incursioni nella Polonia, che non si sono astenuti dalla Moldavia et Vallacchia, soggette al Gran Signore, et Saim Girà, fratello del re deposto, macchinato di sorprender la città d’Andrianopoli a maggior et impostantissimi dissegni. Dall’altra parte Polacchi vedendo per tal’incursioni l’inosservanza della pace, lasciano anch’essi per vendicarla libero il freno a Cosacchi alle infestationi del Mar Nero, col mezzo delle quali crescendo ogni dì più di numero et di forze, non è altresì in potestà del re di Polonia il raffrenarle.
Sono li Cosacchi una razza d’huomini che, habitando su le rive et siti del Boristene, paludosi et inaccessi, scorrono per esso nel Mar Nero con certe barche chiamate saiche grande come nostre armate, et capace ogn’una di 50 huomini da remo et da spada. Inferiscono a Turchi continui gravissimi danni, in quel modo che già inferivano nel nostro Colfo li Uscocchi.
Questi, che da principio erano pochi et corseggiavano con poche saiche, non osando penetrar molto adentro nel mar, si sono poi a poco a poco con le continue depredationi resi così numerosi et forti, per il concorso non solo de vicini ma de remoti ancora, alla fama delle lor prede, che uscendo ne tempi presenti con trecento e più saiche in numero di quindeci e vinti mille, armati di moschetti et altr’arme da offesa, et nel resto si può dir nudi, valorosi et bravi, infestando la navigatione di quel mare, da cui la città di Costantinopoli riceve il suo principal nutrimento, la tengono ben spesso in un pericoloso assedio; anzi penetrati a mio tempo col ferro e col fuoco si può dir nei borghi di essa, la posero in tanta confusione e spavento, che ben si conobbe quanto nelle cose humane, benché grandissime, possa un inopinato et non preveduto accidente. Et l’anno seguente assalita da loro con 300 saiche l’armata del Gran Signore di 70 galee, rinforzata di molto numero di giannizzeri e sphai, et commandata da Rezep, moderno caimecan, saliti per forza con meraviglioso coraggio su la maggior parte delle galee, et su la real medesima, se ne impadronirono sino all’albero con grandissima uccisione, che per confessione de Turchi medesemi senza un fortuna grande di mar, che per lor buona fortuna sopragiunse in quel punto, sbandò et disperse le saiche, tutta l’armata ottomana saria restata lor preda, con quelle grandi importantissime conseguenze che molto ben si comprende, et che meritamente muovono l’animo de Turchi abbandonato già alcuni anni il pensier del Mar Bianco, impiegar tutte le lor forze maritime nel Nero contra di loro. Et verificandosi quanto ultimamente scrive l’eccellentissimo signor bailo dell’unione de Saim Girà con essi cosachi per uscir in mare più poderosi che mai, converranno Turchi far il medesimo, et finalmente riaccendersi di nuovo con Polacchi la guerra, la quale non heverebbe tardato tanto se non fossero stati divertiti da quella di Persia et dalle commottioni del governo, et dalla stima ancora che doppo la valorosa difesa di Cottin fanno delle forze di quel regno molto maggior di prima. Et quando ben Polacchi travagliati dall’arme di Svetia, et molto ben conscii che non per impotenza dell’essercito turchesco ma per il suo malgoverno rovinò quell’impresa, per non mettersi in novi pericoli volessero contener Cosacchi, non sarian, come ho detto, per la troppa potenza loro bastanti a farlo.
Tentò il capitan bassà, sul mio partir da Costantinopoli, uscito con settanta rinforzate galee in quel mar, fidatosi su le false promesse del re tartaro et di Saim suo fratello d’assisterlo, di fabricar in certo stretto di quelle bocche due forti che impedissero la loro uscita, ma deluso dalle dette promesse, convenne retirarsi senza tentarlo, et per salvarsi col Gran Signore et con i ministri, ne ristorò doi altri in sito molto più remoto et incongruo, et che fabricati già al medesimo effetto, vedendosi che non servivano, restavano abbandonati. Da ciò è nata la depositione dal regno del predetto re tartaro, et la risolutione del fratello di unirsi con Cosacchi, li quali saranno forse anco fomentati da eccitamenti de Spagnoli, come ho detto di sopra, per divertirsi nei presenti moti d’Italia le gelosie et pericoli che gli apporteria l’uscita dell’armata turchesca nel Mar Bianco.
Soleva per il passato la provincia di Moldavia per occasione dell’elettione di quei principi, prettesa e mantenuta già da Polacchi, dar gran materia di contesa et turbolenze con Turchi, quali trovandosi d’alcuni anni in qua in possesso della detta elettione, et procurando Polacchi farla cader in soggetto lor confidente, doppo la sconfitta del Gratiani restano per quel che spetta a tal prettensione le cose assai quiete et agiustate. Et cessando parimente, per la pace hora fatta con l’imperator, le querelle de Turchi delli aiuti somministratigli da quel re nella guerra, pare che al presente tutta la difficoltà consista et sia ridotta alle sole infestationi de Tartari et de Cosacchi, come ho predetto, alle quali, essendo per le cose considerate il rimedio molto difficile, con gran ragione si può concludere che se ben hoggidì passano Polacchi e Turchi sotto nome di pace, ella però non possi esser né durabile né sicura.
Tra la Porta et il granduca di Moscovia passa qualche corrispondenza, non tanto per occasion del confine, quanto per quella della guerra di Polonia, accesa hora con l’uno et hora con l’altra. Nella mossa a mio tempo di sultan Osman contra quel regno, furono da lui spediti diversi chiaus in Moscovia per eccitar quel principe a secondarla con le sue arme da quella parte. Il medesimo procurò egli che facessero Turchi nelle mosse de Polacchi contra Moscovia, ma l’una e l’altra senza alcun frutto, in modo che consiste hoggidì la corrispondenza più in dimostrationi di stima et di rispetto di quel principe verso il Gran Signore, con speditione alle volte de ambasciatori con presenti di pelli preciosissime, che in effetti di maggior sussistenza; anzi per un’altra generation de Cosacchi Moscoviti, che anch’essi infestano il Mar Negro, se ben molto manco validi et numerosi dei Polacchi, sono usciti protesti et minaccie dalla Porta contra Moscoviti, difficili a mettersi in effetto, mentre massime unendosi ben spesso gl’uni con gl’altri, la colpa è da Moscoviti imputata a Polacchi, et admessa la giustifiatione da Turchi per nutrir le discordie tra loro et non dar maggior ansa alla predetta union.
Dalli vascelli armati di Fiorenza et di Malta, sentono ben spesso Turchi nei lor mari molestie e danni, et conservano perciò contra ambidoi un pessimo animo; et nondimeno non sono restati per liberarsene di prestar orecchie a qualche apertura di conventione et di comercio mercantile col granduca fatta dal sanzacco di Secazar, per la repugnanza delle cose molto difficile a concludersi, et che preiudicialissimo al nostro, fu da me sempre con la debita destrezza contraminato. Non può tolerar la grandezza et alterigia turchesca li affronti che in tanta disparità di potenza et di forze li vengon ben spesso fatti da così picciolo numero di galee d’un ordine de cavalieri padroni di un scoglio, et d’un principe riputato da loro minor di un suo sanzacco, et nutriscono un ardentissimo desiderio della vendetta contra l’uno e l’altro; onde fu grandissimo il contento che si sentì alla Porta per la vittoria che nell’incontro seguito questi anni adietro nei mari di Sicilia, hebbero le galee de Tunesi contra quelle di Malta. A due delle quali, con una di Spagna presa poco prima dalle medesime et condotte da quei corsari a Costantinopoli, vidi io uscirgli incontra il capitan bassà con buon numero di galee, et il re medesimo con estraordinaria solennità assister dal chiosco a questo trionfo. Et dalle lettere dell’eccellentissimo signor bailo Venier, l’eccellenze vostre intesero già con quanta conduttione fosse dalla Maestà Sua inteso l’ardir delle fiorentine nel penetrar et prender alcuni caramussali poco discosto dai Dardanelli, et nella loro immediata speditissima recuperatione, non ostante la quale corse quel bassà a cui fu commessa dall’indignation del re manifesto rischio della testa, per non haverle sconfitte et prese. Soleva già il granduca Ferdinando, avo del presente, oltre le galee infestar i mari del Signor Turco con vascelli tondi, armati et mantenuti con molta spesa, et nutrir intelligenze con l’emir di Saida et altri ribelli a quelle marine, con dissegni di sorprese sopra il Regno di Cipro et in altri posti, che riuscite altretanto vane quanto dispendiose, restano dal moderno granduca tralasciate, et li vascelli tondi disarmati; et certamente che tali tentativi et provocationi non han servito ad altro che a eccitamento a Turchi di risvegliarsi nelle provisioni delle cose maritime et restauratione delli arsenali, li quali senza ciò sarebbero senza dubbio in maggior disordine et declinatione. Et piaccia a Dio non siino bastanti a farle ben tosto pur troppo risorger et ridur al stato di prima, vedendosi a ciò il presente capitan bassà molto intento et risoluto.
Da quanto ho sin qui rappresentato intorno il presente stato delle cose tra l’imperator de Turchi et li principi di Christianità che tengono qualche interesse et relatione seco, et che dirò a suo luoco di questa Serenissima Repubblica, comprende molto bene la Serenità Vostra trovarsi hoggidì quell’Imperio con i predetti principi di Christianità in pace, o almeno in una quasi sicura quiete. Ma da quanto anderò rappresentando dei principi mussulmani, et della lor setta, vederà tutto il contrario et una quasi fatal conversione delle cose, che dove per ogni ragione divina et humana, hevrebbono i principi christiani nella presente debolezza de Turchi esser uniti alla loro oppressione, et i Mussulmani al sostentamento, ogn’una delle parti da ciò aliena et in sé stessa divisa, attende a perturbar e lacerar sé medesima, ma con tanto maggior preiuditio et nota dei primi quanto l’opportunità se gl’offeriva più grande al vantaggio della fede et di lor medesimi.
Il maggior et più potente principe tra Mussulmani, doppo il re de Turchi, è quello di Persia, così per la potenza delle sue forze, benché non paragonabili a quelle dell’altro, come per il valor di Abbas Soffì, che regna al presente, nell’arte della guerra et della pace tra i più degni et celebri del nostro secolo, stimato et temuto da Turchi sopra ogn’altro, poiché risolutosi nel principio del suo regno con generosità pari al valor di rihaver per forza d’arme dalle mani degl’Otthomani tutto ciò che da essi era stato tolto a suoi maggiori, l’ha sì felicemente esseguito, et non contento di tanto, va come si vede manifestamente aspirando a cose et imprese maggiori. Non fu mai principe che meglio conoscesse i modi et l’occasioni di trattar con Turchi la guerra et la pace di questo, et meglio vantaggiarsi nell’una et nell’altra. Mentre vide l’avo et il padre del presente sultan Amorat implicati nelle guerre d’Ongaria et d’Asia, gli mosse l’armi con felici successi, et in spatio di pochi anni ricuperò gran parte dell’occupato; et se dai maggiori principi christiani, eccitati da lui con espresse ambasciate, gli fossero state mantenute le promesse, haverebbe sin dall’hora, con sommo benefitio dei medesimi principi, dato all’Imperio turchesco gran crollo. Et nondimeno, benché deluso et destituito da loro, et per la pace fatta con Turchi da Rodolfo imperator, si trovasse con tutta la piena delle loro arme adosso, nulla rimesse del suo invitto animo, ma consumati parte con la bravura della sua spada, et parte con l’industria del suo consiglio gl’esserciti numerosissimi di Amurat et di Calil bassà, costrinse il padre del presente re imperversatissimo in quella guerra, per i consigli dei medesimi ad abbracciar la pace nella quale lasciandosi come in feudo al Persiano tutto ciò ch’haveva ricuperato, fosse egli tenuto mandar ciascun anno alla Porta cento some di seta et altri regalli, batizzati da Turchi per tributo, per velar sotto tal nome la vergogna dei lor danni. Stabilita la pace, non si diede egli alla quiete e all’ozio ma rivoltosi contra il Magor et Osbech Tartaro gli tolse la fortezza di Candabar, per la quale principal chiave di quei stati havea egli spaleggiato Osbech, che a favor de Turchi nelle predette guerre gli faceva gagliarda diversione, i quali non potendo per le rivolutioni intestine della morte di sultan Osman all’hora soccorrerlo, egli altresì in quella di Babilonia non ha voluto o potuto contro il Persiano far mossa alcuna; il quale havendo nell’istesso tempo, et poco prima dell’impresa di Babilonia, fatto anco quella d’Ormus contra Portoghesi, ben dalle sudette cose in breve spatio di tempo prosperamente tentate contra sì gran re d’Indie, di Spagna et di Turchia, si può conoscer la grandezza del suo coraggio et la felicità delle sue arme, et molto più per l’impresa di Babilonia, città tanto principale et antica sede dei re di Persia, tolta da lui a Turchi per forza d’armi, et con quel grave danno del loro essercito condotto da Caffis primo visir, che a quel tempo ne fu da me la Serenità Vostra particolarmente avisata, et munita poi di maniera che non hanno né Calil, spedito dalla Porta in suo luoco, né Crustef, presente primo visir successo a Calil, osato attaccarla. Et non è dubio che se Abbasa bassà d’Arzirum havesse, con la costanza dell’animo colla quale cacciato il presidio ottomano da quella piazza, et introdottovi il suo proprio, si mosse già con essercito et penetrò sin in Angori nel modo ch’ho detto di sopra, conservato quella piazza et corrisposto alle trattationi tenute col Persiano, ella hoggidì si troverebbe nelle sue mani, con danno incomparabile de Turchi per esser non solo la chiave principale dei lor stati da quella parte et l’Arsenale delle loro guerre contra la Persia, ma porta opportunissima a quel re di occupar Trebisonda et metter piedi sul Mar Maggior, dissegno da lui concertato con Saim Girà, fratello del re tartaro, et col suo mezo con Tartari e Cosachi, a total eccidio dell’Imperio Otthomano, o pur d’occupar Balsara, emporio principale nel Seno Persico, et penetrar in Aleppo, et con la sponda d’Arabi et dell’emir di Saida alli stessi dissegni, quali conosciuti da Turchi non men importanti che riuscibili con l’occupatione d’Arzirum, non è meraviglia se recuperatala dalle mani d’Abbasa, ha il Gran Signore mostrato in Costantinopoli l’allegrezza che avisò l’eccellentissimo bailo. Con tutto ciò è da tener per fermo che quel re, mantenendo il solito vigor, non perderà occasione alcuna di nuovi acquisti, onde habbi a durar un pezzo quella guerra, mentre, sollevatasi non poco per la ricuperatione d’Arzirum e per la desmissione dei doi fratelli tartari la fortuna de Turchi, faranno indubitabilmente ogni sforzo per ricuperar Babilonia, et dal Persiano altretanto per conservarsela. Et impresse le militie che in quell’impresa si tratti non tanto dell’Imperio quanto della religion, per certe superstitioni controverse con i Persiani nel possesso di quella città, non si dimostran ritrosi a continuarla, et il re et ministri della Porta per rimaner in Costantinopoli liberi dalle loro insolenze, et ridurle per tal via a minor numero, l’impiegheranno volentieri in quella guerra, la continuatione della quale con avantaggio del Persiano, sarà molto proficua all’interesse di questa Serenissima Repubblica.
Con doi ambasciatori di quel re capitati a mio tempo alla Porta, passai con la debita circospettione quelli officii di stima et di amorevolezza che furono soliti li miei precessori, et convenienti a quella buona dispositione che mi attestarono viver il quella Maestà verso questa Serenissima Repubblica, della potenza et prudenza della quale, per quanto rifferisce ogn’uno che vien di là, et la Serenità Vostra ne ha ricevuto da lei medesima vivi testimonii, ne fa conto grande et ne parla nell’occasioni con molto honor. Serve al mantenimento di tal sua buona dispositione, oltre li predetti officii fatti dai baili nella venuta de suoi ambasciatori alla Porta, il buon trattamento che viene usato anco in questa città agl’huomini di quella natione, et particolarmente alli spediti dal re con sete di sua ragion propria per investirli in panni d’oro et di seta per suo servitio e traffico, et pur intendo esser ultimamente con i galeoni di Soria capitate qui un con sue lettere, et mandato di ricuperar quel denaro che fu dalla Serenità Vostra fatto li anni passati da suoi agenti depositar in cecca, per maggior sicurezza et sicurtà, il quale come poco prima del mio partir si lasciò intender meco il caimecan, et io ne avvisai la Serenità Vostra, prettende il Gran Signore, et potria dar materia di disgusto all’uno o all’altro re, benché per le cose dette da me in tal proposito al caimecan, rimesse egli assai del suo primo calor, né so che ne habbia più parlato.
Il secondo principe mussulmano di potenza e di forze è riputato Osbech tartaro, confinante da una parte col Persiano per il monte Caucaso, et dall’altra col Magor. Questo, come ho detto di sopra, soleva per il passato star molto unito et dipendente da Turchi per ragion di religione uniforme con loro, et differente da Persiani, come per quella di stato; per la quale convenendo egli desiderar l’abbassamento di quel re, era sempre pronto nelle mosse dell’armi ottomane contra la Persia a mover anch’egli le sue con una gagliarda diversione, l’importanza delle quali, conosciuta molto bene da quel re, s’è assicurato dalle sue mosse nel modo che ho sopradetto. Così restando interrotta la buona intelligenza et corrispondenza de mutui soccorsi tra il detto Osbech et il Gran Signore, ne viene a perder questo, nelle guerre col Persiano, quel gran vantaggio che soleva ricever dalla sua diversione; viene però il danno di tal perdita a mittigarsi in Turchi con la consideratione che trovandosi hora li Osbechi rinchiusi et indeboliti essi, il pericolo che di continuo tormentava il loro animo d’esser un giorno dalli detti Osbecchi scacciati dall’Imperio, col favor et inclinatione dei popoli per il bon nome che portano di osservantissimi della religione, molto più inclinati a loro che a Turchi, caduti nei presenti tempi per la patente et publica inosservanza di essa, in universale odio e dispreggio.
Cosa che parimente è stata la principal cagione et origine delle diffidenze et dei dissidi nati tra il Gran Signore et Mehemet Girà re dei Tartari Precopensi ultimamente deposto, i quali potenti anch’essi, et per la vicinità molto più habili degli Usbecchi, et in materia di religione con non minor buon nome et favor dei sudditi, hanno a sugestione di Saim Girà fratello di Mehemet, con manifesti tentativi aspirato ad occupar agl’Ottomani nelle passate sovversioni l’Imperio, et in luoco di assisterli contra il Persiano, come eran soliti in gran numero et non minor frutto, machinavan seco, et coi Cosacchi medesimi, alla loro distruttione, che mosse il Gran Signore, benché implicato nelle guerre di Persia, a tentar per ogni modo di scacciarli dal regno et introdurvi Gir Girà prima deposto. Il che, seben ha sollevato l’animo della Maestà Sua da gravi imminenti pericoli, non è però che ne possi viver sicura, mentre rimangon tuttavia in vista et in casa li medesimi fratelli con seguito, et dipendenze grandi con l’intelligenze con Cosacchi et col Persian medesimo tocche di sopra. Et mentre per i disordini dell’Imperio in luoco dell’obedienza et del rispetto, è subintrato nei medesimi Tartari l’istesse contrarie inclinationi che in tutti gl’altri, et più intense ancora per li abbattimenti seguiti sotto Rezep et il presente Assam capitan del mare tra Turchi e loro. Onde è da creder che difficilmente potrà il Gran Signore valersi di essi nelle guerre contra il Persiano; anzi converrà lasciar quel re alla custodia del paese dall’insidie et sforzi dei fratelli predetti, i quali col braccio de buon numero de Tartari lor dependenti per terra, et con quello de Cosacchi per mare, saranno astretti Turchi a continuar più che mai le armate loro nel Mar Nero, come è successo da qualch’anno in qua, et grossi presidii di gente ai confini per impedirgli l’invasioni. Et posso assicurar la Serenità Vostra niuna cosa crucciar più l’animo di quei ministri et la Maestà Sua medesima di questa, per la facilità di penetrar per ambe le vie nelle viscere dell’Imperio et nella sede di esso, et per la disposition de popoli che ogni dì più va diminuendo verso gl’Ottomani et inclinando ai Giangè, famiglia dei re tartari più antica, et per l’occasione della religione et valor de soggetti in estimation grande; tanto che nelle confusioni dell’Imperio corse in Costantinopoli per molti giorni la voce che, stante la imbecilità dell’animo di sultan Mustaffà et degl’anni del presente Amorat, ben saria stato trasferir l’Imperio nel re tartaro, a cui doppo li Ottomani per natura tocccava; né altro modo esservi per ovviar alla sua rovina, s’aggiunge, la manifesta intelligenza et dipendenza di Saim dal Persiano, di cui è stato priggione et hospite per molti anni, accarezzato et guadagnato con molti favori, et tra quali passano certamente i disegni che ho sopradetto, a Turchi molto ben noti.
Da queste diffidenze et sospetti de Tartari, come vien a mancare a Turchi un principial sussidio delle loro imprese terrestri con quelli altri importanti preiuditii ch’ho detto di sopra, così per l’inobedienza et contumacia che li Barbareschi di Tunesi et Algier da qualche anno in qua usano con la Porta, ha ella medesimamente perduto un potente pressidio alle sue maritime imprese, mentre si può tenir per fermo che entrati coloro per la potenza delle forze proprie, et per la debolezza delle ottomane, in grandissima prettensione di sé medesimi, et perduto del tutto il rispetto et l’obedienza ai commandanti et ai ministri del Gran Signore, nascendo l’occasione ricuserian di unirsi con l’armate di lui, et di prestar obedienza al capitan bassà; che seben continuano tuttavia a ricever in quei luochi i bassà inviatigli dalla Porta come facevan prima, son andati di giorno in giorno sercinandogli in modo l’auttorità del governo, che ridotta tutta in un divano di lor medesimi, la residenza del bassà viene ad esser semplice forma et apparenza, senza auttorità alcuna; anzi con perpetui timori et pericoli dall’impeti et barbarie loro nelle persone proprie. Da che nasce che non trovandosi alla Porta soggetti degni che voglino trasferirsi ai detti governi, è costretto il Gran Signore inviarci delli indegni, che in luoco di rimediar, fomentan et diventan corsari come gl’altri. Né prestandosi ivi obbedienza alcuna ai commandamenti di Sua Maestà, etiandio di pugno suo proprio, già riveritissimi, molto ben si conosce esser hormai indubitabile a tutti non potersi, se le cose non mutano, sperar per via de ufficiali et di commandamenti della Porta a male così grande e pernicioso quanto è il corso di detti Barbareschi, il rimedio. Uno ve ne saria, che seben non adeguato del tutto, valeria pur di impedir in qualche parte l’infestationi et i danni, quando non fossero accettati et raccolti nei porti et sotto le fortezze di quell’Imperio; et io fattolo molto ben conoscer coi miei efficaci uffici ai ministri della Porta, et ottenutone infiniti vigorosissimi commenti per ogni parte, non han però partorito alcun buon effetto, per esser da per tutto l’obedienza perduta; cosa, che molto ben conosciuta dalla somma prudenza di quest’eccellentissimo Senato, s’è indotto a procurar qualche rimedio da sé medesimo con quella institutione di navigatione con galeoni et galee grosse per Cipro et Soria ch’hora si prattica, et che quando si potesse anco per l’altre scale del Levante, partorirebbe senza dubbio il medesimo buon effetto.
Hebbi anch’io per un pezzo, come molti altri, qualche dubio che veramente dalla Porta non si procedesse in questo affare con la debita sincerità, et che anzi si godesse dei nostri danni dai predetti Barbareschi, et che però più per non voler che per non poter, si permettessero; ma in progresso di qualche tempo ho da molte prove chiaramente conosciuto il contrario, et che il Gran Signore et i ministri toccando con mano i danni et preiuditii proprii che risultano ai Casnà della Maestà Sua da questi corsi, et alla reputatione ancora, desideravano trovarvi qualche compenso per rintuzar anco l’ardir et insolenza di coloro, a Turchi medesimi divenuti insoportabili poiché non contenti della sostanza, dismettono anco le apparenze della soggettione, non inviando più alla Porta li presenti soliti, et parlandosi in faccia d’essa dai suoi deputati quando vi capitano, con grande insolenza et con tal contumacie che in luoco di esseguir la sentenza del Gran Signore sopra le differenze tra Tunesi et Algier, non tenendone nissun conto, l’han deciso tra loro con l’arme. Onde, benché tardi, cominciano li ministri della Porta a riffletter sopra quello che più volte da me ponderatogli mostravan di non temerne, et a ponderar dove possa giunger l’ardir et temerità di quelle genti; né mi tacque il capitan bassà, sul mio partir, non desiderar per altra cosa più la sua uscita nel Mar Bianco che per condursi in Barbaria con più forze che potria per ridurli alla pristina obedienza, et per spogliarli di una immensa congerie d’oro, che al creder suo et d’altri, si trova ammassata in quei luochi, con tante continue depredationi con le quali hanno spogliato et impoverito tutti gl’altri. Io commendai dai il disegno, benché reputi l’essecutione difficile, et la condition dei tempi et delle cose turchesche impropitia et importuna a tal tentativo, il quale penetratosi dai Barbareschi potria ben maggiormente alienarli et confermarli nella contumacia, come appunto per l’istessa causa è successo de Tartari; ma se la natura ardente et altiera del capitan bassà, mal bilanciata ne suoi disegni, l’inducesse a tentar temerariamente una cosa tale non è dubio ne potrian seguir effetti et conseguenze nelle cose del mar per Turchi, e per gl’altri, di grand’alterazione et rillievo. Ma è più tosto da creder che esso capitan bassà, o divertito anco il presente anno da Cosacchi non potrà uscire, o, uscendo, non sarà con forze tali che ricercan un tal tentativo, et le cose restino nel stato che pur si trovan, senza speranza alcuna di rimedio dalla Porta a tanti nostri danni dalle infestationi de Barbareschi, et con altretanta necessità alla prudenza dell’eccellenze vostre di procurarselo da sé medesime; et con questo conforto almeno, che sicome dalla contumacia de Barbareschi verso la Porta viene a difficultarsi nell’occasioni l’unione d’ambe le forze di tanto numero di vascelli grossi e sottili sul mar, così dalle diffidenze et divisioni che ho rappresentato di sopra, passar hoggidì tra il Gran Signore et gl’altri principi dell’istessa setta, ne deriva la presente sua debolezza et la credenza che possi per giornata farsi maggior.
Hora, havendo parlato di quanto hoggidì passa tra il Gran Signore et i principi maggiori della nostra et della loro religione, passerò per non attediar la Serenità Vostra con brevità a quelli minori, che per ragioni di feudo et di tributo da lui dipendono, il più stimato de quali è al presente Betlem Gabor, principe di Transilvania, di cui havendo sparsamente detto di sopra per quel che aspetta alle sue mosse d’armi contra l’imperator successe in mio tempo, basterà in questo luogo dire trovarsi egli perciò in molta diffidenza di quella Maestà, et all’incontro in altretanta fede et auttorità con la Porta, che conoscendo l’avantaggio della sua dipendenza, non lascia in tutte l’occasioni di compiacerlo et honorarlo, come si fa anco con molta dissimulatione de Cesare, conoscendo molto ben per l’esperienza del passato il travaglio che può ricever dalla sua parte, così per le forze proprie, potendo con gran facilità uscir in campagna con vinti e più mille cavalli, e penetrar nei stati di Sua Maestà, come per quelli de Turchi confinanti, pronte sempre ad unirsi seco; et non è dubbio che le mosse d’esso principe sariano proprissime per far a quelle dell’imperator contra l’Italia gagliarda diversione, quando però il re Christianissimo, per le cose da me tocche di sopra, non havesse perduta seco ogni fede, et halienatolo da quei pensieri di concorrer anch’esso contra la casa d’Austria insieme con gl’altri, nei quali si mostrava ardentissimo. Ad ogni modo è servitio della Serenità Vostra conservarselo ben affetto, sì per il predetto rispetto come per l’auttorità et fede che tien con la Porta, et per l’inclinatione che dimostra a questa Serenissima Repubblica, la quale con accarezzar i suoi huomini che qui capitano per occasione di negotio mercantile o per altro, et col commettere al suo bailo di far a Costantinopoli il medesimo, sarà facile il conservarlo. Soleva egli pagar alla Porta 40 mille taleri di tributo annuo, ma d’alcuni anni in qua, in riguardo delle spese da lui fatte nelle sue mossse d’arme contra l’imperator, n’è stato esentato. Mandò egli però de quando in quando suoi ambasciatori con presenti al re et a ministri, et vi tiene anco un suo agente ordinario, et con uffici et avvisi fatti portar da lui con summa finezza et artificio, nelle quali è peritissimo; si mantiene, come ho detto, presso Turchi in molta riputatione et stima; havendo anco poco prima del mio partir spuntato, quasi più con gelosie et minaccie che con donativi o preghi, l’investitura di quel stato, doppo la sua morte, nella principessa sua moglie. Sa egli molto ben l’odio che gli porta l’imperator et di non poter mi assicurarsene, perciò è costretto star ben con Turchi et dipender da loro. Et nondimeno va al presente con uffici et dimostrationi trattenendosi con l’altro, col quale, havendo già due anni confermato le capitulationi, si può credere le mantenirà sinché gli torni il conto.
AS Venezia, Collegio, Relazioni.b.6.
Trascrizione di Maria Pia Pedani, in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, vol. XIV, Relazioni inedite. Costantinopoli (1508-1789), a cura di Maria Pia Pedani, Padova, Ausilio, 1996, ora in https://unive.academia.edu/MariaPiaPedani