1781 - 1786 Agostino Garzoni
Relazione
Serenissimo Principe.
L’onore di aver servito l’eccellentissimo Senato in attualità di bailo alla Porta Ottomana, dovrebbe avermi fatto acquistare una qualche idea delle cose interne ed esterne di quel vasto impero, sì relative al dominio di vostre eccellenze che agli interessi delle altre nazioni. I lumi che derivano dall’esperienza di quei egreggi soggetti che mi precederono, e singolarmente dall’illustre capo della Repubblica, potranno col confronto e colle loro riflessioni infonder spirito alla semplice descrizione dei fatti accaduti nel tempo della mia residenza a Costantinopoli, che in obbidienza alle leggi sono in dovere di rassegnar alla pubblica sapienza.
Dal numero 24 dei miei dispacci, che rende conto delle prime rivoluzioni della Crimea e loro origine, sino al numero 82, che accompagna la carta di cessione di quella provincia alla Russia, la maggior parte dei miei dispacci versa sopra questo gravissimo avvenimento. È superfluo ripetere i fatti contenuti nelli dispacci stessi, dalla serie dei quali ogni gabinetto, e singolarmente quelli dei principi confinanti, possono rittrar lumi ed avvertimenti per ciò che riguarda la Porta, la Russia e le nazioni che vi hanno rapporto.
Nell’origine di quelle rivoluzioni si può ragionevolmente credere che abbia avuto parte la Porta e la Russia stessa, con viste e fini opposti. La prima per riddure li Tartari della Crimea come erano avanti l’ultima guerra, e la seconda per sottometterli e dominarli. Ogni passo della Russia era preceduto ed accompagnato dall’apparato di forze terrestri e marittime che mettevano in soggezione la Porta; questa all’opposto fomentava occultamente le discordie e le turbolenze, mostrando in apparenza buona volontà di sopirle ed accomodarle, sicché la Porta con la sua condotta incerta, contradditoria, ed alcune volte fallace, contribuì essa stessa alla propria rovina.
La Russia seppe bene approffittare delle circostanze e dei momenti, progredendo sempre colle sue prettese, sino al punto della cessione. Una ricerca più forte succedeva sempre all’altra, e con tanta rapidità che non dava tempo al riposo, al maneggio, alla riflessione. L’appoggio dell’imperatore, che pareva misterioso, giovò moltissimo per far ottenere senza spargimento di sangue quel che la Russia meditava. Si conosceva notoriamente la situazione dell’Impero Ottomano sotto il sultano attuale, poco atto alla cura del governo, la qualità delle forze marittime e terrestri dei Turchi, l’indole di un gabinetto che sempre si cambia, e non pensa che al proprio interesse, né è difficile a corrompersi. Non si può ammirar abbastanza la finezza della corte di Russia, che non solo seppe approffittare di tutte queste favorevoli circostanze, ma da lontano prepararsi ancora la strada per qualunque avvenimento, stringendo alleanza con l’imperatore, coltivando le altre corti ed introducendo per sino nuove corrispondenze ministeriali per penetrare più facilmente nelle viste di quelle potenze che potevano adombrarla o coadiuvarla. La direzione del ministro che essa tiene in Costantinopoli non poteva essere più adatta al di lei intento, mentre colla prudenza e tranquillità di spirito spingeva i maneggi nei buoni momenti, li rallentava nei critici e pericolosi, e fece vedere col suo esempio quanto importi ai sovrani l’avvedutezza e direzione dei lor ministri.
La Francia nel corso di questo affare tenne una condotta singolare: il di lei ministro si affaticò moltissimo perché la Porta, cedendo alle circostanze, si accomodasse; ed in progresso tutti li suoi sforzi parevano diretti a far rissorgere i Turchi dal lor lettargo, e ricuperare il perduto.
L’affar della confinazione austriaca somministrò argomento anch’esso a vari articoli di dispaccio, e singolarmente al numero 97 e 99, ove si spiega la natura e le opposizioni dell’affar stesso. Al momento della mia demissione pareva che fosse posto in silenzio, dopo che l’internoncio cesareo aveva dichiarato alla Porta che, nascendo disordini a quei confini, l’imperatore li avrebbe egli stesso regolati colle sue forze. La maggior difficoltà derivava dai Bosniachi, fomentati forse occultamente dalla Porta, i quali godendo molti privileggi, ed essendo ben trattati dal Gran Signore, ripugnano a cambiar padrone. Il ministro di Russia appoggiava li passi dell’internoncio cesareo, ma non con quella forza che erasi impegnata a nome dell’imperatore per le cose della Crimea, parendo che ottenuto dalla corte di Russia il proprio intento, poco si curasse degli affari altrui. Alcuni erano di opinione che quest’affare si sarebbe ripigliato in progresso, essendo interessata la dignità di Sua Maestà Cesarea, che avendo confluito moltissimo colla sua attività per far acquistare alla sua alleata una provincia così importante, non possa poi nemmeno col di lei appoggio ottener per sé, in confronto, un palmo di terreno.
Dall’altro canto il genio dell’imperatore sembra inclinato a tentar d’ottenere il suo intento, ma non con spargimento di sangue umano, senza del quale sarebbe difficile il superar le resistenze.
Passando ora all’affar di Butintrò, che riguarda la Repubblica. Tra i vari dispacci che diedero esercizio alla mia diligenza, il più interessante è quello del numero 92 che accompagna un firmano definitivo, a differenza dei precedenti firmani che erano tutti d’informazione e tutti inutili. Le ragioni della Repubblica, chiare ed evidenti, sono conosciute dai ministri della Porta, e note al Gran Signore, ma un possesso per parte dei Turchi, tollerato dalla Repubblica per più anni, fa che dalle alte montagne circonvicine discendano i feroci Albanesi per occupar con violenza quei pascoli, sicché senza qualche numero sufficiente di truppe e spargimento di sangue è quasi impossibile tener lontana quella gente da quel sito incolto e di non gran circuito. La resistenza che incontrava l’imperatore per la confinazione austriaca, fu motivo d’ostacolo anche per l’affar di Butintrò; vi si aggiunse la deposizion del vizir di allora che fece cambiar aspetto a tutti gli affari, come d’ordinario succede in quel governo, e finalmente la guerra alli Tunisini, che era molto sensibile alla Porta.
Col dispaccio numero 125 ho reso esatto conto di una seria conferenza da me tenuta sul proposito di questa guerra col capitan pascià, che unitamente al Gran Signore bramava interessarsi per procurar la pace. Li Cantoni di Barbaria, benché indipendenti, vengono riguardati dalla Porta con un occhio di predilezione, assi stiti e soccorsi nei loro bisogni. La condotta che si tenne colli Tunisini fu quasi la stessa che si teneva cogli Algerini, quando erano attaccati dalli Spagnuoli che, stanchi di una guerra inutile, cambiarono poi sistema. Quei popoli, oltre d’essersi muniti con l’arte, in un sito già forte per natura, oltre l’assistenza ed i soccorsi della Porta, sono anche sostenuti per gelosia di commercio da alcune nazioni cristinane, come è noto.
Se la guerra colli Tunisini esercitò la mia attenzione e diligenza, la esercitarono egualmente le turbolenze dell’Albania, causate dal pascià di Scuttari. Incominciarono le molestie sin dal principio dell’anno 1784, quando furono svaliggiati, ed arrestati li corrieri pubblici che andavano a Cattaro, come dal mio dispaccio numero 93. Li corrieri furono messi in libertà ma non fu restituito il denaro loro derubbato, in summa di circa sei mila piastre, ad onta del forte firmano spedito col dispaccio numero 94. Quella misera gente a cui apparteneva quel denaro mi presentò varie suppliche, da me trasmesse sempre all’eccellentissimo Senato. Il pascià si valse allora del prettesto che fossero Montenegrini coi quali era in guerra, che furono poi sottomessi.
Dal numero 130 sino al numero 140, quasi ognuno dei miei dispacci tratta delle cose dell’Albania. Li più dettagliati sono li numeri 130, 132, 134, 138. Dal contesto delle cose in essi dispacci contenute, si vede che questo affare dal principio del suo nascere sino al momento della mia dimissione era dei più strani e singolari. Il pascià di Scuttari, di spirito inquieto ed indipendente, ora dichiarato ribelle, ora rimesso in grazia, decaduto e ristabilito di nuovo, fu sempre poco amico dei Veneziani, bramoso della conquista del Monte Nero, alla quale crede, e voleva far credere alla Porta, che Cattaro e Castel Novo, in mano della Repubblica, sia di grande ostacolo. Gli insulti e le aggressioni che praticava erano sempre da lui coperte col titolo di rappresaglie. La Porta era divisa tra il ministro che si cambiava ogni momento, ed il capitan pascià che continuava sempre nel suo porto con eccesso di autorità. Lo spirito del ministero pareva allora ben disposto per la Repubblica e contrario alle mire e direzioni del pascià di Scuttari, sempre protetto ed assistito dal possente suo protettore. La buona volontà di alcuni ministri della Porta non era però sufficiente all’effetto, per la contrarietà del genio del capitan pascià, e per la debolezza del governo, che non è sempre in stato di farsi ubbidire. Da tali circostanze, la maturità pubblica desumeva e desumerà argomento di tener sempre aperti gli occhi sopra le direzioni di costui, che a quest’ora avrebbe meritato di essere attaccato e distrutto da qualunque principe, che non fosse in situazione di usar moderazione e prudenza per non arrischiar troppo. Appena insorte le turbolenze dell’Albania durante la mia attualità, incominciai a coltivar tutte le vie possibili per procurarmi lumi e comunicarli al Senato. Presentatosi a me, son circa due anni, un certo Duoda, fu vice console veneto in Scuttari, mi raccontò che per alcune prettese volendo quel pascià arrestare un bastimento veneto, avvertito dal Duoda il capitano potè fuggire in tempo. Irritato il pascià fece por in priggione il Duoda per farlo decapitare ma, riuscitogli di corrompere le guardie e fuggire, era riccorso da me, pregandomi di alimentarlo per carità. Da principio non gli prestai fede così facilmente, non privandolo però di assistenza e soccorso; in seguito tutti gli indizi concorrevano a confermare la verità di quanto mi aveva esposto. Mi consegnava tutte le lettere che gli pervenivano da Scuttari dai suoi parenti le quali, trasmesse al Senato, servirono poi per alcuni confronti che si verificarono. Questa rozza persona, che mi parve fedele e attaccata al pubblico servizio, è capace di tutt’altro che di esercitar l’uffizio di console. Mi pregò di concedergli l’imbarco per venir a Venezia, ove si trova, e mancandogli i modi di vivere, continuerò ad alimentarla per carità, sinché la pietà pubblica stabilisca del di lei destino, come anche accennai nei miei dispacci del numeri 135, 136 ed altri.
Passando brevemente ad altri affari, farò un cenno sopra quello della messettaria, che risvegliò ed eccitò le mie cure. Questo è un aggravio tenue che pagano alcune mercanzie oltre il tre per cento. I Francesi ne ottennero l’esenzione sin dal tempo della pace di Belgrado, in ricompensa della mediazione che allora interpose quella corte. In seguito li Russi e gli Austriaci la conseguirono tre anni sono, al momento che stipularono i lor trattati di commercio. L’ambasciator d’Inghilterra, che coltivò sempre il capitan pascià, la ottenne recentemente col di lui mezzo. Il ministro di Olanda e quello di Vostra Serenità presentarono per lo stesso oggetto il memoriale, da me rassegnato col numero 36, ed in seguito altri ancora. Ero sul punto della maggior lusinga, quando fu deposto il vizir che era favorevole ed insorse la rottura colli Tunisini, nel qual tempo non si poteva pensar di ottener favori. Il vantaggio è tenue in se stesso, ma l’eccezione in confronto delle altre nazioni è interessante per la dignità; ed oltre a questo qualunque vincolo è sempre rilessibile per rallentare il corso del commercio.
Li Schiavoni sudditi che sono in Costantinopoli, recarono da principio molestie e disturbi alla carica che avevo l’onor di sostenere. A seconda dei pubblici voleri, e dell’esempio dei miei predecessori, tentai anch’io tutte le vie possibili per liberarmene, ora col privarli di prottezione, ora coll’intimar loro la partenza, facendone anche allontanar molti. Ma insorta la carestia nei lor paesi, costoro corsero in truppa a Costantinopoli, ove trovano facilmente mantenimento. L’umanità ripugnava a scacciarli, sicché fui in necesità di adattarmi alle luttuose circostanze d’allora. Mi sono adossato una pena infinita, distribuindo a ciaschedun di essi colle mie proprie mani la patente di prottezione, facendo un’ammonizione a ciascheduno in particolare, ed alle rispettive comunità unite, minacciandoli della pubblica indignazione, ed anche di abbandonarli nelle mani dei Turchi al caso che fossero inquieti e molesti. Questa pacienza, che non può esiggersi come un dover preciso della carica, unita alle insinuazioni e minaccie, giovò infinitamente, sicché si guadagnavano il vitto e per lor stessi ed anche per sussidio delle lor famiglie, alle quali mandavano, o portavano lor stessi, soccorso di soldo. Molti Turchi per coltivar la terra, e per altri impieghi, si servivano di questa gente, che colà si trova utilissima. La lontananza dal lor paese non diminuiva punto l’affetto al loro principe, ed anzi la contrarietà delle massime e la ferocia de’ Turchi influiva a renderli vieppiù attaccati al dolce e giusto governo della Repubblica.
Sopra il commercio che ora si fa in Costantinopoli mi son già diffuso nel dispaccio dei numeri 117, sicché ora non potrei che ripetere le cose stesse. Questo è decaduto generalmente, ed alcuni ne attribuiscono la principal ragione all’alterazione della piastra sotto il regno di sultan Mustafà, precessor del regnante. Se questa supposizione è vera, la decadenza anderà sempre più accrescendo, perché nel tempo del mio soggiorno si alterò nell’intrinseco valore due volte. I Francesi si querelano anch’essi della decadenza del lor commercio e ne rissentono le conseguenze; i lor panni, che non molto tempo fa avevano il maggior esito, ora hanno ceduto la mano a quelli di Germania. Le saggie venete della fabbrica Vinetti continuano ad essere in preggio, e si considera l’articolo più vantaggioso del commercio della nostra piazza. Le lastre di Germania sono più chiare e consistenti delle venete, ma costano più. Lo stesso può dirsi anche della carta rispetto a quella di Olanda. Pochi lustri e pocchi specchi di Venezia ora arrivano a Costantinopoli, ove hanno la preferenza quelli di Francia e d’Inghilterra, ad onta che li nostri siano infinitamente migliori per la luce che si mantiene senza appannarsi; ma la grandezza e la varietà delle forme attrae l’universale che vien rapito dall’apparenza.
Il dispaccio dei numeri 142 versa tutto sopra il commercio e la navigazione del Mar Nero ottenuta dai Russi e dagli Imperiali, desiderata e tentata sinora invano dai Francesi, che sono infatuati dall’idea di quel commercio. Uno degli oggetti più interessanti per loro sarebbe la facilità di acquistar legni da costruzione navale, dei quali non abbonda il loro regno; ed oltre a questo non possono soffrire di veder altre nazioni dalla Porta privileggiate a loro esclusione. Si vidde con sorpresa uno dei loro bastimenti, con equipaggio e capitano francese, innalzar bandiera russa per entrar in quel mare, come ho reso conto nel dispaccio dei numeri 139. Il commercio, il più vantaggioso che vi si faceva al tempo della mia dimora, era quello dei grani, che per la gran carestia dell’Egitto si trasportavano con gran vantaggio in Alessandria. Nel resto le opinioni sopra i vantaggi di quel commercio in generale erano varie e dissonanti tra li mercanti stessi, in modo che pareva un mistero. Li Russi vantavano prodiggi, ma una loro compagnia, nata sotto gli auspicii e coi fondi dell’imperatrice, era prossima a soccombere ed a sciogliersi; non si sa se vi siano capitalisti per conto di quel commercio né in Pera né in Crimea, e la navigazione del Mar Nero per più di quattro mesi all’anno è impratticabile.
Finalmente il mio dispaccio dei numeri 141 è un ritratto dell’attual stato dell’Impero Ottomano colli rapporti alle altre nazioni. Un tal dispaccio, che è lungo e dettagliato, mi sforzai di riddur lo più al naturale che mi fu possibile. Essendo l’ultimo che ebbi l’onor di segnare in attualità, è superfluo ritoccare le cose in esso contenute per risvegliare alla memoria dell’eccellentissimo Senato, che le avrà presenti. L’Impero Ottomano in questi tempi, e nelle attuali politiche circostanze, è molto diverso da quello che era nei secoli precedenti, e sino a quasi la metà di questo. Nell’ultima guerra colli Russi ricevè un colpo fatale, che colla perdita poi della Crimea finì di essere decisivo, sicché la di lui sussistenza ora dipende più dalla volontà degli altri principi, e dalla politiche combinazioni, che dalle proprie sue forze. Al caso di una futura guerra, quando questa potenza non sia validamente ed apertamente sostenuta da qualch’altra, par che non sia in istato di ressistere alle forze di una sola nazione. Se questa guerra, che sarebbe delle più strepitose ed interessanti, arriverà poi e quando non è permesso all’umana intelligenza di poterlo sapere. Par che li Russi vadino da lontano disponendo tutti li passi per oggetti sempre più vasti; ma anche per loro potrebbero cambiarsi le circostanze interne ed esterne, che nel corso di questo glorioso regno furono le più favorevoli. È ora da credersi ragionavolmente che al caso che succeda grande avvenimento, ogni gabinetto abbia già preso in prevenzione il proprio sistema per non trovarsi scoperto e profittare dei momenti. La Francia tiene i piani delle fortezze e dei porti già scandagliati dell’Arcipelago, ed al caso che l’Impero Ottomano non abbia più a sussistere in Europa, essa farà ogni sforzo per rendersi arbitra del commercio del Levante, mettendo sotto il giogo le altre nazioni che lo essercitano, e ridducendole in uno stato molto peggior di quello in cui ora si trovano sotto l’Impero dei Turchi. Le nazioni confinanti, e particolarmente quelle che vantano diritti, hanno maggiori mottivi di premunirsi di buoni sistemi per il caso possibile di un così strepitoso avvenimento. L’ultimo trattato di Passarovitz, esteso in momenti di violenza, imbarazzò molto i pubblici Consigli e direzioni nell’ultima guerra coi Russi, essendo obbligata la Repubblica, in forza di quel trattato, di non accogliere nei propri porti legni nemici del Gran Signore, cosa contraria al diritto delle genti ed ai principi di una perfetta neutralità, che è il miglior sistema della Repubblica per conservarsi.
Il modo di sciogliersi da tali imbarazzi, e di premunirsi a tempo da qualunque soprafazione di quelle nazioni che volessero impossessarsi di ciò che per antichi diritti appartiene al Veneto Dominio, al caso di futuri incontri, è tutto risservato ai profondi consigli della pubblica sapienza; non restando a me che far voti al cielo per la felicità della Repubblica, rispettata da tutte le nazioni per la sua antichità e prudenza, e che per singolar benefizio della natura, essendo mia Patria, ha diritto di esiggere il sacrifizio che faccio con esultanza di tutto me stesso. Grazie. Venezia, lì 19 agosto 1786.
AS Venezia, Collegio, Relazioni b.7.
Trascrizione di Maria Pia Pedani, in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, vol. XIV, Relazioni inedite. Costantinopoli (1508-1789), a cura di Maria Pia Pedani, Padova, Ausilio, 1996, ora in https://unive.academia.edu/MariaPiaPedani