1785 - 1788 Girolamo Zulian
Relazione
Serenissimo Principe.
Suplisco al dovere che impongono le leggi a quelli che ritornano dalle corti straniere, col rassegnare la relazione della Porta ottomana. Il difficile argomento, e nobilissimo, esigerebbe nella presente condizione de’ tempi un espositore simile a quelli fra maggiori nostri, li quali soministrarono colle loro relazioni dei documenti preziosi alli più celebri storici d’Italia, ed uno che sapesse esaminare l’attual situazione politica dell’Imperio de’ Turchi, e svilupparne le politiche conseguenze. Converrebbe anche forse chi meglio di me sapesse esaminare le cause e li progressi della precedente decadenza di quel Imperio, come delle cause e dei progressi del suo ingrandimento trattò in tempi assai diversi dai nostri Bernardo Navagero nella sua celebre relazione citata, o piuttosto riferita egualmente che encomiata da più gravi scrittori delle cose italiane, della quale l’unico prezioso esemplare sta custodito nella Real Biblioteca di Torino.
Ho letto in quella per quai gradi fossero prima ad uno ad uno asogettati que’ vari regoli, li quali si erano diviso l’imperio di Gengis Kam nell’Asia da più sultani fino ad Amurat primo. Come poi questo, ed alcuni de’ suoi successori, profittassero delle divisioni de’ principi cristiani per conquistare parimenti ad uno ad uno li principati della Valacchia, della Moldavia, della Tracia, della Grecia, della Macedonia e della Ungheria, colle sue dipendenze, o come dilatassero dopo le loro conquiste nell’Affrica, nella Siria, nell’Armenia e nella Mesopotamia.
Quindi traluce come finalmente la Patria nostra, o sola o male asistita, abbia difficilmente resistito ad Amurat secondo, che fu il primo de’ monarchi ottomani che gli movesse guerra, ed a quegli altri de’ suoi successori, li quali usurparono alla Repubblica la parte più preziosa de’ suoi domini in Oriente. Le perdite che costarono quelle guerre furono legermente compensate da qualche ingrandimento nella Dalmazia e nell’acquisto di Santa Maura, dal brieve possedimento del regno della Morea e dalla gloria che tramandarono col loro valore e col loro sangue tanti illustri concittadini li quali, contrastando quelle perdite fatali, le ritardarono ed impedirono che divenissero generali o più grandi. Dopo la guerra di Candia si sono mutate le cose, e colla diminuzione de’ suoi dominii e della preponderanza delle sue forze, scemò ancora il terrore di quella una volta formidabile potenza all’Europa. La tattica militare migliorata nel passato secolo, e perfezionata forse in questo, ha tramandato agli eserciti cristiani quella superiorità che il valor de’ gianizzari dava prima alle armate turche. La Russia, potenza una volta quasi ignota o non considerata neppur dagli ottomani, è comparsa sul teatro politico e cominciò a farsi temere col manifestare nel finir del secolo passato le sue mire ambiziose colla presa di Azof.
L’avvenimento di Ferdinando primo al trono della Ungheria aveva fatto della casa d’Austria una potenza capace di resistere a Turchi, ma l’imperator Leopoldo fece anche di più. Egli assogettò quella parte dell’Ungheria che non gli obbediva prima, e rendendo quel regno, di elettivo che era, ereditario, lo unì per sempre col trattato di Carlovitz agli altri domini della sua famiglia, assieme alla Transilvania e col Bannato dipendenze di quello. Così divenuta la casa d’Austria tranquilla posseditrice di tanti stati riuniti, oltre di quegli altri pervenuti ad essa per altre ragioni, invece di temere le invasioni degli Ottomani si è fatta anzi formidabile a loro.
Più di tutto però valse a far mutar condizione alla potenza ottomana il rafinamento politico delle due corti di Pietroburgo e di Vienna. Conobbero esse che la loro unione, oltre ad acrescere la considerazione di ambedue nelle combinazioni generali della Europa, avrebbero messo un freno all’ardor de’ Turchi di far quelle conquiste fondate sulli religiosi precetti dell’Alcorano, ed a quello più grande ancora di ricuperare li perduti. Fu per questo motivo concluso il trattato di alleanza difensiva fra l’imperatrice Anna e l’imperator Carlo sesto. Alla stanchezza della casa d’Austria per la guerra del 1733, alla condizione delle sue armate tanto pregiudicate per li disagi di quella, e più di tutto alla morte del principe Eugenio ed alla mala intelligenza fra li generali ad esso sostituiti, sono imputate quelle sventure che costrinsero la casa d’Austria a rinunciare nella pace del 1739 la Servia, Belgrado e quella parte della Vallacchia che prima possedeva. Forse la memoria di que’ discapiti e la voglia di ricuperare li stati perduti nella nominata pace, e probabilmente ancora la lusinga di poner nuovi e più rimoti limiti all’Impero Ottomano, indussero il presente imperatore e la presente czarina a segnare dopo la morte di Maria Teresa nuovo trattato di alleanza, li di cui articoli sono ancora ignoti all’Europa.
Sono state considerate come conseguenze di questo trattato secreto quello di Cainardgik 1774, che stabilisce la indipendenza della Crimea ed accorda la libera navigazione del Mar Nero al paviglione russo; la convenzione 1783 che stabilisce la cessione della Crimea alla Moscovia conseguita col solo terror delle minacce, ed inoltre l’ingrandimento della Russia nella Mingrelia nella Giorgia, e la rinuncia della Buhowina alla corte di Vienna col successivo trattato di comercio, che stabilisce la libera navigazione del Mar Nero alla bandiera della corte medesima. Tanti vantaggi, alcuni de’ quali furono riportati senza combattere, fecero sperare al principe Potemkim di far un’altra volta delle nuove conquiste minacciando. Dimandò pertanto, oltre varie cose di minor importanza, che fossero accordate alla czarina delle dipendenze più estese nella Giorgia, ed inoltre il possesso della Bessarabia, pretesa qual antica proprietà degli aboliti kam della Crimea.
Questi progetti, per dir vero ambiziosissimi, sono stati maneggiati dal signor di Bulkacow coll’altezza dei modi corrispondenti alla persuasione che le minaccie, perché abbiano fortuna, devono essere trattate con alterigia. Il tentativo però questa volta non ebbe un esito fortunato, poiché il primo visir ha creduto, o piuttosto conosciuto, che colla cessione della Bessarabia si avvicinassero troppo li confini della Russia alla capitale ottomana, che ogni compiacenza attirava una nuova dimanda e che bisognasse opponersi allora al progresso di tante mire ambiziose o sopportare che, fortificata la Crimea e resa formidabile la flotta russa in Mar Nero, restasse l’Impero Ottomano in Europa e la stessa capitale alla discrezione della czarina. Con queste considerazioni conseguì dal Divano, sebbene dopo molte difficoltà, l’assenso alle dimande da farsi alla corte di Pietroburgo. Furono esse, oltre alcune cose di minor importanza, di quelle importantissime dell’abolizione di tutti li recenti trattati, della conseguente restituzione della Crimea e rinuncia della libera navigazione del Mar Nero, e conseguì inoltre che, nel caso del rifiuto che doveva attendersi, se le dichiarasse la guerra. Fu presentato di signor di Bulkacow non solo il negoziator sfortunato, ma la vittima ancora del tentativo ardito, mentre riuscito vano, perché tardo, il ripiego di desistere dalle pretese ritirando le già fatte domande alla Porta, fu da questa dichiarata la guerra alla czarina, e resta egli dopo venti mesi prigioniere nelle Sette Torri.
Convien credere che la corte di Russia non abbia considerato quanto conveniva l’apprensione concepita dal defunto re di Prussia delle mire ambiziose delle due corti imperiali celate sotto il velo d’un trattato secreto; apprensione confermata nel re presente dalla indicata dimanda della cessione della Bessarabia, e dalla dichiarazione della guerra fatta da Cesare. Convien anche credere che la corte medesima abbia giudicato che la libera navigazion del Mar Nero non dovesse dispiacere all’Inghilterra. Convien pur credere che abbia mal calcolate le forze della Svezia, o piuttosto la possibilità che fosse incoraggiata e sostenuta da altre potenze, ed abbia perciò giudicato che avesse a restare inoperoso come nell’altra guerra il trattato di alleanza difesiva colla Porta 1740 contrastato a quel tempo tanto validamente dal ministro russo a Costantinopoli signor di Wischniakoff, e concluso finalmente per la efficace assistenza della corte di Francia. Convien finalmente credere che il signor inviato Bulkacow abbia disprezzati que’ maneggi che, noti a tutto il corpo diplomatico, ho anche rassegnati all’eccellentissimo Senato dell’inviato di Prussia e dell’ambasciator d’Inghilterra per indurre la Porta a sostenere la guerra colla Russia.
Finché la politica delle due corti imperiali si ristrinse a preparare con dei trattati dei communi ripari contro l’ambizione de’ Turchi, nel che ha consistito il primo trattato 1726, le altre potenze non avevano motivo di formar sospetti, né dovevano prender parte nelle guerre che sopravenissero colla Porta; ma quando l’imperatore e l’attual czarina conclusero quel secreto trattato, per cui l’Europa giudicò che avessero concertate delle importanti conquiste nella Turchia europea, e più ancora quando l’imperatore dichiarò la guerra alla Porta, dovettero necessariamente prender parte nella querella li principi gelosi dell’ingrandimento delle due corti, e confinanti ad esse. Sembra pertanto cosa manifesta che la dichiarazione dell’imperator abbia fatto conoscere alli Turchi una verità da loro prima non sospettata, che siccome la czarina e l’imperatore, colle due repubbliche di Venezia e Polonia, sono stati un tempo li necessari alleati contro la Porta minacciante, le due corti di Svezia e Berlino, confinanti colli due imperi, siano divenuti li necessari amici della Porta minacciata.
Non devo dissimulare a Vostra Serenità che questa nuova politica combinazione acrescerà indubitatamente l’orgoglio del ministero ottomano, che così pensavano prima della mia partenza tutti li ministri forestieri, e che alli dragomani, anche a quelli delle maggiori potenze, parve di trovare un’accoglienza più austera dal reis effendi subitocché giunsero a Costantinopoli le notizie della dichiarazione di Svezia. Questa alterigia diventerà anche più grande se le condizioni della pace saranno vantaggiose alli Turchi, come potrebbe essere se la ventura campagna in Ungheria somigliasse alla passata, e se le potenze mediatrici fossero quelle che hanno il maggior interesse di oponersi all’ingrandimento delli due alleati ed alla restituzione della navigazione nel Mar Nero alle loro bandiere imperiali.
Non ardirò di far delle congetture tendenti a pronosticare quali delle maggiori potenze, e quali ministri, abbiano ad avere o tutta o la maggior influenza nelli maneggi della pace. Ho però ragion di credere che l’ambasciator di Francia, prima della mia partenza da Costantinopoli, temesse molto di essere superato da quello d’Inghilterra. È bensì noto che il re di Prussia ha una volta offerta la sua mediazione e quella della Inghilterra alla corte di Pietroburgo, ed ho già rassegnato a vostre eccellenze che queste due corti la avevano offerta dopo anche alla Porta, sebbene con poca fortuna in allora. Sembra per altro credibile che la czarina non sarà per accettare la mediazione della Inghilterra e delle Prussia, se non sia costretta, poiché sussiste, anzi è più forte, quel motivo che fece escludere l’Inghilterra nella pace del 1739, il qual motivo fu la evidenza che a quella corte non potesse piacere che la bandiera russa godesse della libera navigazione del Mar Nero, alla quale fin d’allora aspirava, e partecipasse dei commerci del Levante. Forse la mala inclinazione palesata dal re di Prussia alla Moscovia nella guerra attuale, e le relative disposizioni, che si supongono all’Inghilterra faciliteranno alle corti interessate a non volerle la esclusione di queste due potenze dalla mediazione della pace. Per altro li sovrani, che per la loro grandezza e rapporti meritano d’interessare le osservazioni delle altre corti, hanno de’ gradi vari di considerazione alla Porta.
La Svezia e la Prussia godono adesso in quella corte del primo credito, e li loro ministri de’ principali riguardi. La Inghilterra, dopo le ostentate dimostrazioni di favore alla Porta, e dopo che quel ambasciatore ha ricuperato il primo favore presso il visir, dovrebbe avere la principal influenza nel trattato di pace, se sarà accettata la mediazione della sua corte. L’ambasciatore di Francia pare sia diminuito di credito dopocché il visir sospettò che l’amicizia della sua corte non fosse tanto animata quanto la confidava, e dopocché fu fatto suporre al Divano che le sue speranze personali siano state tutte fondate sul favore della regina, e per conseguenza che egli fosse secreto parziale della corte di Vienna.
L’ambasciatore di Ollanda, occupato unicamente degli affari della sua nazione, sembrava alieno perfino dall’imaginare che potesse partecipare un giorno dei maneggi della pace, come potrebbe dar luogo a credere il nuovo trattato di alleanza della sua repubblica colle due corti di Berlino e di Londra. Egualmente ozioso, ed affatto lontano da qualunque idea di maneggio era il ministro di Spagna al momento della mia partenza.
Da queste osservazioni passando all’argomento esenziale, che è ciò che riguarda l’eccellentissimo Senato, rassegnarò ossequiesamente come esso sia stato prima, e fosse poi considerato al momento del mio imbarco dalla Porta ottomana. Vostre eccellenze furono riguardate fin dai primi momenti della dichiarazione della guerra con quella estrema gelosia che ho descritta esattamente co’ miei riverenti dispacci, la quale ha tanto esercitato il mio zelo fra le angustie di que’ giorni difficilissimi. Sorsero subito de’ sospetti d’intelligenze secrete fra l’eccellentissimo Senato e le due corti imperiali, e la memoria del vecchio trattato avalorava la opinione della conclusione di un altro recente. Più di tutto però dava peso ai sospetti la squadra di Vostra Serenità applaudita dalla fama, ed esagerata dalla paura, che fece credere che la rottura con Tunesi fosse un semplice pretesto per mantenerla in mare. Le apprensioni fra il volgo erano vaghe e generali, ma precise e dettagliate fra gli uomini del governo. Già si attribuiva all’eccellentissimo Senato la idea ed il concerto di ricuperare una determinata parte delli stati perduti, come ho rassegnato in dettaglio a quel tempo. Il signor ambasciatore d’Inghilterra poi, e l’inviato di Prussia, furono quelli che promossero il sospetto dell’indicato concerto e della garanzia dei nuovi acquisti accordata alla Repubblica per far rissultare, colla impossibilità di evitare una guerra estesa e di già convenuta, la prudenza e la necessità di prevenirla.
A questi timori devo specialmente attribuire la sorte di aver liberati dagli orrori del bagno cinquanta quattro sudditi dell’eccellentissimo Senato, fatti prigionieri nelli bastimenti russi in Mar Nero. Fu questo un riguardo spezioso dimostrato dal visir a Vostra Serenità, poiché a nessun altro de’ ministri forastieri fu condiscendente su questo argomento quanto con quello di vostre eccellenze, poiché il ministro più distinto fra gli altri in questa restituzione fu quello di Francia, che ne ebbe undici, e poiché al momento del mio imbarco era da lungo tempo ritardata la liberazione di un inglese e di un napolitano, quantunque efficacemente procurata dai loro ministri.
Le istruzioni e comandi che ho venerati nelle sapientissime ducali di Vostra Serenità, da me obbedite colla più scrupolosa assiduità e con abbondante fortuna, hanno conseguito di dileguare que’ dubbi che, ispirati o mantenuti dalli due nominati ministri, avrebbero forse prodotto delle sfortunate molestie alla Repubblica.
All’opera mia osequiosa fu di efficacissimo soccorso la egregia condotta dell’eccellentissimo signor cavalier e procurator Emo, il quale conformandosi agli ordini ed alle massime prudentissime dell’eccellentissimo Senato mi soministrò, con fatti preziosi e noti a vostre eccellenze come pure ad altre corti, delle prove utilissime per distruggere li sospetti concepiti dalla Porta per le secrete e moleste insinuazioni dell’ambasciator d’Inghilterra e dell’inviato di Prussia. Mercè pure a questi soccorsi ho potuto conseguire di adempire pienamente quell’ogetto del mio ministero, che le ducali di Vostra Serenità qualificarono di sommamente importante; sicché al momento di mia partenza da Costantinopoli di niente si chiamava più sicuro fra le cose politiche il ministero ottomano che della costante amicizia della Repubblica.
È pertanto assai fondata la fiducia che se nuovi fatti di qualche importanza non intervengono a risuscitar de’ dubbi vostre eccellenze abbiano ad esser libere per questo motivo da qualunque fastidio, e tanto più che sono servite da un cittadino di molta destrità ed esercitato nei maneggi ministeriali, come lo è l’eccellentissimo mio successore.
Ma se Vostra Serenità può essere intieramente persuasa per ora della buona corrispondenza della Porta, sembra all’umiltà mia che ciò nulla ostante le possibili alterazioni del tempo, e li casi possibili dell’avvenire, esigano la cognizione più grande che si possa avere dell’indole e carattere del sultano e delli attuali ministri della Porta, come pure delle finanze di quella e della forza terrestre e marittima dell’Impero Ottomano, e quindi appartenga il dovere di rassegnare a vostre eccellenze quelle notizie che vi hanno relazione.
Il sultano è un principe dotato delle migliori qualità che possono qualificare un ottimo uomo nella vita privata. Egli è giusto, generoso, capace di sentire dell’amicizia per li suoi servitori e di conservarla. Del resto alieno intieramente dagli affari, li abbandona ciecamente a quelli a quali suole accordare una illimitata fiducia. La sua bontà si palesa particolarmente verso il suo nipote e successore al trono imperiale, il principe Selim, che distingue contro il costume degli altri sultani con distinta parzialità. Questo giovane principe possede già l’amore del popolo, che gli suppone in grado estremo que’ talenti che sono li più cari alla nazione mussulmana. Così comunemente si crede che sia valoroso, attaccatissimo alla sua religione, intraprendente ed avido di gloria militare. In qualche momento di cattiva disposizione degli animi verso il sultano regnante, si vociferava pubblicamente per le piazze e per le strade che il principe Selim ristabilirà col suo valore un giorno l’Impero Ottomano nel suo primiero splendore.
Il primo visir Jusuf passà, uomo inalzato dalla più vile condizione al grado supremo, ha giustificata la sua elevazione col far mostra di grandissimi talenti, spogli per altro di cognizione qualunque e coltura. Degli affari dell’Europa egli s’istruisce soltanto quanto esigono le circostanze, e lo fa ricercando quelli fra Turchi ai quali supone qualche cognizione, e molto più interrogando il suo confidente ambasciator d’Inghilterra, il quale per tal modo ha la facilità d’ispirargli qualche sua opinione. Questo primo visir non è orgoglioso per disprezzo delle altre nazioni, o per bruttale aversione alle medesime, come lo sono molti fra Turchi: congiunge a somma attività, buon senso ed intrepidezza, ed è sempre animato dal più gran zelo di assicurare la stabilità dell’Impero.
Il capitan passà, con minori talenti e con coraggio inconsiderato, ha il vantaggio sopra l’altro di una simulazione anche più profonda e di una maggior esperienza ed arte nel trattare gli affari; è sempre assistito dal favor del popolo e del Serraglio, dall’amor del sultano e dalla fortuna. Egli ha sempre fatto conoscere che la sua principal massima politica sia di accarezzare quelli de’ ministri forestieri, li di cui sovrani si mostrano li migliori amici della Porta, li confinanti sopra tutto, e la mantiene quallora la ferocia del suo carattere non gliela faccia scordare. Di questa sua massima ho dovuto convincermi quando ho trattato con esso affari di Vostra Serenità, alla quale mi si mostrò sempre bene inclinato. Se qualche volta egli si dipartì alquanto da questa disposizione del suo animo per male rappresentazioni, o per opinioni mal fondate, lo ho veduto ricuperarla subitocché o restò convinto della falsità dei rapporti, o conobbe il suo errore. Qualche volta traspira la secreta gelosia che tende a romper la concordia fra questi due ministri, che la gratitudine del primo visir all’altro, che fu il suo padrone e protettore ristabilisce, e che l’interesse reciproco rende necessaria ad ambedue.
Il reis effendi poi è un uomo esercitatissimo negli affari politici, per esser stato per lunghi anni belixì effendi, o sia ministro principale della cancellaria. Ogn’uno gli suppone de’ grandi talenti, ed è poi certo di un’indole tranquillissima, e si mostra studioso di sempre meglio assicurare la buona corrispondenza della Porta colli principi amici di quella. Il muftì sarebbe un ministro di somma importanza, se la cieca dipendenza del attuale dal visir non rendesse superfluo di far parrola del medesimo, come pure è superfluo parlar di quegli altri che hanno più rimota parte negli affari politici.
Sarebbe impossibile l’assicurar qual sia la somma annuale delle rendite dell’erario di quel impero. Il dubbio procede tanto dal mistero che fanno alcuni Turchi e dalla esagerazione di alcuni altri, quanto dalla incertezza del valor di alcuni di que’ fondi che formano il complesso delle rendite stesse.
Sono esse composte di vari articoli, li principali de’ quali è il carazzo, che è una imposizione che pagano tutti li sudditi del Gran Signore che non sono mussulmani; le dogane, quelle spezialmente di Costantinopoli, Smirne e Salonicchio, che sempre si affittano al più offerente, e le imposizioni sul caffè e sugli aromi ed altri generi. Più che cadauno delli nominati articoli però rendono le rendite vitalizie che fa il governo di terre e regalie, che sono di una quantità immensa. Il prodotto di questa rendita è vario ogn’anno, poiché dipende dal numero delle morti degli investiti. Egualmente incerto e grande è il ritratto delle confiscazioni, che talvolta ascendono a qualche millione. Tutti questi articoli compresi formano secondo la più comune opinione, e la più probabile, una summa annuale di sessanta millioni di piastre, un anno per l’altro.
Non è per questo che tutta la imensa estensione dell’Impero Ottomano non contribuisca che questa sola somma. Deve computarsi in conto d’imposizione, e d’imposizione gravissima, l’obbligo che hanno li proprietari de’ fondi di vendere a prezzi vilissimi al governo li grani occorrenti alla capitale, all’esercito ed alla marina, e così pure li generi inservienti a costruire ed equipaggiare la flotta. Un’altra utilità acresce le ricchezze dell’erario, la quale dipende dalla alterazione delle monete, il di cui numerario corrispondeva una volta al reale, ed il valor delle quali è stato poi alterato più volte, ed anche recentemente.
Quando la necessità costringe, si riccorre per far dinnaro a mezzi estraordinarii, come sarebbe un aumento al carazzo e la dispozizione de’ fondi delle moschee, che sono ricchissime. A quest’ultimo però si arriva difficilmente, ed anche adesso se ne sono astenuti, quantunque il muftì abbia pubblicata la sua decisione che il sultano potrebbe servirsene per la guerra attuale senza offesa dell’Alcorano, dichiarando la guerra presente una guerra di religione. Siccome è difficile il calcolare le rendite dell’errario, così è pur difficile il computare a quanto possa ascender quel numero de’ soldati con cui la Porta può sostenere una guerra. Degli ordini vari delle sue milizie, li due soli tenuti sempre in piedi, e sempre pagati, sono quelli de’ spay e de’ giannizari.
Quest’ultimo è il più considerabile ed il più famoso, come è noto, della truppa mussulmana. Sono li giannizari divisi in cento sessanta due camere, e dovrebbero essere mille per cadauna; ma la prodigiosa quantità delle piazze morte ne diminuisce considerabilmente il numero. Vengono poi li topsì, ed altri, gente mandata alla guerra dalli passà, che varia nel numero secondocché si alterano le intimazioni del governo, suscettibili di que’ cambiamenti che sono propri delle circostanze. Per gli arbitri però de’ comandanti, e per la disobbedienza de’ comandati, quella gente è sempre in quantità minore della prescritta.
Vi sono inoltre li soldati che sono condotti da que’ molti che possedono delle terre per investiture fatte dal Gran Signore, la quota di cadauna de’ quali è conforme alle condizioni delle rispettive investite. Devono finalmente contarsi li volontari, che per lo più concorrono in gran copia, come fu nell’anno scorso, in cui il popolo era estremamente acceso dal zelo della sua falsa religione, e dalla speranza di un abbondante bottino in Transilvania ed in Ungheria Secondo la opinione, la più probabile, che è pur quella de’ ministri forastieri, che sono li più provetti alla corte di Costantinopoli, deve credersi che nella passata campagna, la prima della guerra circa quattrocento milla Turchi guerreggiassero in Asia verso Alkaliska, ed in Europa nella Valacchia, Moldavia, Croazia e Servia.
A tutti li combattenti, che non sono giannizari o spay, contribuisce l’erario cinquanta piastre a titolo d’ingagio, ed otte parà per giorno in conto di paga, e non sono obbligati a servire che una sola campagna. La rinovazione annuale dell’ingagio costringerebbe in una lunga guerra ad una spesa immensa, se non fosse ristretta a termini soportabili dalli seguenti considerabilissimi risparmi in confronto delle altre potenze europee. Risparmia la Porta la spesa delle armi, perché deve ogni soldato portar le proprie; risparmia quella del vestiario, perché non si conosce da Turchi l’uso delle uniformi, e risparmia moltissimo delle paghe degli uffiziali, perché sono li suoi in assai minor numero, e pagati molto meno, che quelli delle altre nazioni.
Da questi risparmi però procedono dei disordini gravissimi poiché que’ soldati, per esser meno custoditi, sono licenziosi e devastosi, anche dei stati ottomani; sono spogli, o vestiti con abiti inoportuni a combattere, e sono armati diversamente l’uno dall’altro, con sommo discapito nelle battaglie regolari e decisive.
Alli indicati risparmi deve aggiungersi quello di già indicato dell’obbligo, imposto alli proprietari de’ fondi ed alli lavoratori delle terre, di soministrare li grani e li foraggi inservienti alla truppa a prezzi vilissimi.
Per altro li soldati ottomani, quantunque indisciplinati, prevalgono per quantità e valore in tutti quegli scontri nei quali non combattono con un’armata ben condotta, o schierata in battaglia formale, nel qual caso la tattica militare dà una decisa superiorità alle truppe delle altre potenze. In forza appunto della loro quantità e valore, successe assai frequentemente nell’anno scorso che li soldati dell’imperatore fossero vinti combattendo in piccole partite, e che alcuni corpi austriaci restassero battuti per esser stati opposti in numero inferiore a quello de’ Mussulmani.
Questa funesta verità soministrerebbe delle riflessioni malinconiche, se si volessero considerare li casi possibili dell’avvenire ai quali può essere la Repubblica esposta, e tanto più malinconiche quantocché essa nelle sue guerre è sogetta a combattere colli Bosniachi, che sono li migliori soldati fra gli Ottomani.
La flotta ottomana fu nella prima campagna di questa guerra sommamente considerabile, se si confronta lo stato presente della marina ottomana con quello che fu sempre dopo la guerra di Candia, guerra che, come è noto, distrusse la forza della marina stessa. Questo prodigioso, e per dir vero inaspettato armo, è dovuto alla portentosa attività del primo visir, il quale ha voluto congiungere alle altre vastissime occupazioni del governo, quella di preparar la flotta al capitan passà, trattenuto allora in Egitto con una divisione per sedar le turbolenze di quel regno.
Oltre li pochi legni che erano nell’Egitto, la flotta turca ha consistito, come risulta dal foglio che ho rassegnato nel mio numero 115, di sessanta sette legni, composti di navi, di quattordici fregate ed altri legni minori, non compreso il gran numero de’ trasporti. Se però si consideri la forza la più importante, che consiste precisamente nelle navi di linea, si riduce questa a niente più che a 18 navi, oltre quella costruita dall’architetto navale francese, e l’altra moscovita, cacciata dalla tempesta nel canal di Bujukdere. Da queste venti navi però deve detrarsi quella incendiata da Russi nel Liman, la sola che la Porta abbia perduto in quel incontro, quantunque la relazione a quel tempo di qualche inconsiderato, ignaro anche della topografica situazione delle foci del Dnieper, abbia fatto credere che ascendesse a molto più.
Di queste navi, se si eccettua la indicata fatta costruire dal Francese di settanta quattro pezzi di cannone, eguale alle migliori che escano dall’arsenal di Tolone, e corredata di una batteria comprata dalla Svezia, tutte le altre sono di pessima costruzione. Sono esse fabbricate, con legni appena levati dal bosco, sopra modelli anticamente male imaginati, e peggio eseguiti. Inutilmente l’accennato costruttore si è affaticato per corregere la gran massa dei disordini dell’Arsenale, e per sostituire alle regole generalmente abbandonate quelle sostituite da tutte le altre nazioni. Se la flotta turca è male costruita, essa è anche peggio armata ed equipaggiata. Se si eccettua la nuova indicata di sopra, in nessuna delle altre navi esiste una sola batteria che sia composta di cannoni di egual calibro.
Li equipaggi poi sono composti di uomini levati la maggior parte per forza ed indistintamente dai littorali e dai paesi marittimi, molti de’ quali mai hanno veduto il mare, ed anche de’ Greci, che in questa guerra servono contro voglia. Li comandanti ed uffiziali poi delle navi e fregate sono anche meno addattati de’ marinai, poiché per lo più è scelto fra li concorrenti quello che offerisce maggior summa di soldo alli grandi del ministero. Spesso sono uomini passati per impieghi diversi affatto dalli marittimi, sempre ignoranti delle teorie e conoscitori più o meno delle pratiche. Uno solo che ha servito nel grado di patrono nella passata campagna era distinto per cognizioni nelle scienze navali, ma fu decapitato per imputazione di non aver voluto protegger colla sua divisione lo sbarco de’ Turchi nello sfortunato attacco di Kimburn.
Convengono tutte le persone esperte nelle cose del mare nell’assicurare che le navi turche sarebbero per difetti di costruzione, di armi e di equipaggi affatto incapaci di eseguire in una battaglia con sufficiente esattezza le evoluzioni necessarie a dare una ragionevole lusinga della vittoria. Passa dunque per indubitato che saranno sempre battuti li Turchi in tutti quegli incontri navali ne’ quali non avranno il vantaggio di una troppo grande superiorità del numero.
Dall’esposto fin ora deve necessariamente inferirsi che, siccome le considerazioni sugli eserciti del Gran Signore tendono naturalmente a ratristare, quelle sulla marina al contrario devono soministrare un giusto conforto all’eccellentissimo Senato. Questo conforto diventa anche maggiore per le riflessioni consolanti che possono farsi sulla flotta di Vostra Serenità. Giudicata, come lo è adesso, dal consenso generale simile, quanto alla costruzione ed attività, a quelle de popoli li meglio intesi delle cose di marina, applaudita dalle nazioni forastiere e, quel che più importa, riputata dal ministero ottomano, deve essere un oggetto lietissimo per ogni cittadino.
Lo sarà anche più se la sapienza dell’eccellentissimo Senato giudicherà che, anche dopo la neutralità di questa guerra, l’attual disciplina ed attività della flotta stessa abbia ad essere l’unico mezzo a mantenere quella riputazione che appartiene alla Repubblica fra le potenze marittime.
Se gli effetti del servizio che ho prestato non sono stati corrispondenti al bisogno, vorrà l’eccellentissimo Senato accettar per discolpa questa mia umilissima relazione. Apparendo da essa quanto sia cosa ardua trattar affari di tanta difficoltà, ed in tempi di tanto sospetto, vostre eccellenze decideranno se così malagevole impiego fosse cosa sopportabile dalla tenuità delle poche mie forze.
Non avendo per aventura operato quanto conveniva al mio desiderio, ed al bisogno, doverà tenermi luogo di gratissima soddisfazione la lusinga di aver offerto alli cittadini di me più esperimentati e capaci, abbondante materia alle più utili riflessioni. Grazie. Dal Lazaretto Vecchio, lì 22 aprile 1789.
AS Venezia, Collegio, Relazioni b.7.
Trascrizione di Maria Pia Pedani, in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, vol. XIV, Relazioni inedite. Costantinopoli (1508-1789), a cura di Maria Pia Pedani, Padova, Ausilio, 1996, ora in https://unive.academia.edu/MariaPiaPedani