• it
  • it
  • en
  • hr
  • el
  • de

1727 Pietro Antonio Bembo

Relazione

1727 11 dicembre. Prevesa Relazione Bembo

 

Serenissimo Prencipe

Ѐ un’atto di ubbiddienza indispensabile verso le pubbliche sovranse venerate dispositioni, quello humilmente essercito ora io Pier’ Antonio Bembo, ritornato dalla carica di provveditor di Prevesa, presentando a’ pie’ del trono augusto di Vostra Serenità la presente riverentissima rellatione.

La piazza di Prevesa, come n’ è di già pienamente informata la pubblica ossequiata sapienza, è la frontiera più esposta delli stati del levante non estendendosi il possesso di Vostra Serenità fuori di quel recinto a più d’un’hora di cammino. la parte più prossima al suo confine è la provincia de Margariti, signoreggiata da’ Turchi della più violente natura, che non riconoscono altre leggi che quelle del loro proprio capriccio, resi sempre infesti alla quiete et sicurezza delli poveri sudditi che si sono dedicati in quel ristretto circuito alla pubblica prottettione.

Li miei primi passi in quel governo furono diretti ad indagar i mezi valevoli a repprimere gl’insidiosi tentativi de confinanti  sì molesti ed a promovere a quei sudditi la sospirata quiete et la sicurezza  assieme delle loro sostanze sempre per l’addietro oltraggiate con repressaglie et schiavitù delle stesse persone. All’incontro, versai con particolar mira di spurgare il paese suddito d’ogni natura de tristi et malviventi soliti a disturbare il confine pubblico et ottomano da che ne prendevano motivo li commandanti dell’Arta et la persona stessa di Mustafà Passiombei, Turco di auttorità et di molte adherenze alla Porta, di promovere ben forti disturbi all’eccellentissimo bailo in Constantinopoli, et di rispondere alle pubbliche lamentationi che si facevano contro li Mergaritti essere molto maggiori le violenze et rapine che venivano tolerate da loro sudditi et dalli stessi Turchi per opera de malviventi che asserivano trovar ricetto nella linea di Prevesa.

Questi furono gl’oggetti sopra quali vi consumai la maggior applicatione, ne provai troppa difficoltà nel mondare il paese di gente di mala vita, perché perseguitati dalle pubbliche forze ogni volta che si lasciavano sentire, et scacciate di pianta quelle poche famiglie et persone che da loro dipendevano, et che se ne stavano occultamente alloggiate, mancò con esse il motivo a medesime di rivoglier il passo sopra quelle terre, né vi trovarono piùluoco al reffuggio che precedentemente si conciliavano con facilità et con tanta commotione de confinanti, cosicché nel periodo intiero del mio impiego non hebbero corraggio li Turchi di portar alcuna inquietudine né all’eccellentissimo bailo alla Porta nemmeno all’eccellentissimo provveditor general da mar, come ne faranno constantissima fede tanti pubblici dispacci caduti sotto l’essame purgattissimo di Vostre Eccellenze. Giovò questo esperimento non solo di aquistar la quiete al pubblico , ma di vincolare li Turchi in maniera che non seppero come più ripulsare le doglianze estese contro li sudetti Margariti .

Il Signor Iddio che ha voluto felicitare con le sue benedittioni la mia vigilanza et il corso intiero della mia carica, ha sempre resi vani simili tentativi, mentre coltivata con qualche mio particolar dispendio la corrispondenza d’un tal capitan Giorgo Conemeno, custode de Turchi nella pertinenza di Luro, l’ha esso mantenuto con la più dimostratione. D’ogni motione de Margariti ne essigevo da lui opportune et preventive le notitie et come costoro cercavano d’introdursi  furtivamente per sorprendere et depredare così al sentore delle precautioni ch’andavo io disponendo si ritiravano.

Tutto, che sia legge naturale d’ogni prencipe diffendere li proprii sudditi dagl’oltraggi degl’aggressori in ogni tempo ad ogni modo li pubblici riguardi, non acconsentivano un aperto impegno dell’armi contro li purtroppo molesti confinanti che con mille pretesti, soliti combinarle in proprio vantaggio potevano apportar gravi disturbi a Vostra Serenità. Improprio dall’altra parte di tolerare gl’insulti, sono con tanta oppressione de sudditi, et che rendevano qualche gelosia alla piazza stessa, atteso il stato suo deplorabile come a suo nichio ne rassegnarò all’Eccellenze Vostre il racconto, rissolsi di rinovar le proprie esclamationi alla persona di Alì pascià di Delvino et Paramithia, et commandante supremo della provincia tutta di Margariti, rimostrandoli con forte senso i trapassi violenti che di sovvente venivano di commettere li suoi nel stato pubblico in tempo di pace tranquilla contro le capitolationi stabilite tra il sultano et la Serenissima Repubblica, che succedendonuove aggressioni non si haverà riguardo a respingerle ed apertamente offenderle, et che di qualunque disordine ne sarebbe lui responsabile per la facilità con cui permette l’unioni di così facinorose partite a danni del prencipe amico. A questo scongiuro fattoli giungere per espressa speditione, non potè negare l’adequata risposta. Confesso esser io stesso rimasto sorpreso, quando raccolsi dalla medesima la maniera concludente con che parla contro il costume di loro naturale superbia. nega d’esser monsulmani o persone d’alcun credito le facinorose et moleste le palesa per ladri et essorta ad offenderli et venderli senza risserve, et che lui non manca dal debito di castigarli et perseguitarli, come la virtù innarivabile di Vostre Eccellenze rillevarà dalòli stessi suo carratteri ch’inserisco alle presenti alle presenti in prova incontrastabile della mia divotissima assertione. Non so vedere ch’ìl suddetto commandante racchiudesse nel suo cuore altro fine che quello di cautellarsi, per cui scrisse così amplamente nel dubio d’alcun riccorso per canto pubblico alla Porta.

Doppo questo rescritto, mi ero confirmato nell’opinione che non dovessero succedere nuovi attentati, persuaso che il stesso pascià fosse per impedirli, onde non si scoprisse che gl’infesti in cambio di ladri, come lui haveva asserito, fossero Turchi et guidati da capi di qualche credito. Pure, non passorono troppi giorni che più arditi et corraggiosi del passato comparirono innaspettati nel giorno 22 luglio dell’anno trascorso da cinquecento d’essi sino a vista della piazza, dopo haver depredato et dato alle fiamme un villaggio della giurisdizione d’Arta, situato al confine, con consternatione non solo de sudditi di Prevesa, ma de popoli ancora soggetti a quel vaivonda, riffuggiatisi in molto numero sotto il calor della piazza, che furono anche prottetti et salvati. Alla loro temeraria comparsa non potei, per metter a coperto le habitationi et sostanze de poveri paesani, che spingerli all’incontro le poche millitie della benemerita natione oltramarina, sbarcate dalla pubblica galleota dirretta dal sargente maggior Zapoga, destinata sopra mie replicate instanze dall’eccellentissimo signore provveditor general da mar in rinforzo delle ben gravi essigenze di quella parte, unendovi pure alla stessa militia li pochi sudditi incorragiti dall’assistenza pubblica. Pensorono li Turchi che al furore del loro fuoco consumato inutilmente a vista de nostri, non fossero per avanzarsi a segno d’offenderli, ma che dovessero rimaner comme immobili spettatori delle loro rapine, ripiego ch’altre volte fu servato, per proceder con politica precautione ed iscansare gl’impegni, ma reso fallace in quell’occasione il loro pronostico, si viddero alle prime scariche de nostri sì malamente colpiti, che non attendendo le replicate, presero la calca inseguiti sino al confine. Due di loro rimasero estinti sul piano, oltre diversi feriti. Non erano li morti della condittione abietta, come il pascià descrisse esser li facinorosi, ma uno di loro fu riconosciuto per un Buluchbassì, che val a dire capo di compagnia, che gode stipendii et altri honararii, soliti esser distribuiti dalla corte verso quelli che contano benemerenze contratte in attioni militari. Ne portai del successo reiterate doglianze al suddetto pascià, in confermation degl’antecedenti riccorsi, et ho rinvigorito le lamentationi con strepitosa frase, dolendomi dei Turchi monsulmani et non dei ladri e malviventi, come egl’haveva accennato. Non potei essigere alcuna risposta, et convien credere che la propria  confusione l’habbi rittenuto. Intanto, l’esito per essi poco fortunato produsse la quiete  al confine, non essendosi d’all’hora in poi sentite più unioni né partite ad incaminarsi a danni di quei poveri sudditi, degni della publica compassione.

Nel scorso giugno arrivò, spedito dalla Porta per reprimere questi contumaci, Missir pascià a Delvino, con qualche seguito d’armati, et volendosi questo inoltrar a Paramithia trovò un forte incontro di tre mille Margariti che con qualche uccisione de suoi l’obligarono a retrocedere. Unitosi, poi, al medesimo pascià un de loro capi, per nome Mustafà Veisoglù, con numeroso partito, poté destramente avanzarsi ed introdursi in quella ressidenza, trovatala, però, spoglia affatto d’habitatori breve fu la la sua dimore a quella parte, mentre in vendetta d’haverlo spalleggiato et introdotto, essendo stato privato di vita poco giorni dopo il predetto Mustafà da una scarica d’archibuggiate uscita da una moschea, assalito da timor panico precipitosamente si ritirò  di nuovo a Delvino, da dove, avanzate le proprie doglianze et lamentationi alla corte per il temerario trapasso de’ proprii sudditi, sta, voglio creder, sino a quest’ hora attendendo più validi rinforzi et mezi per adempire all’obligo adossatoli. Unisce la suddetta provincia con le ville sue vicine ed amiche da nove in dieci mille huomini armati, ma più atti alle rapine che all’armi. Da questo numero non disprezzabile, ma più dalli siti inaccessibili ed impenetrabili del loro paese resi arditi, nulla o poco temono li rigori del suo sovrano.

Nel maneggio di quei commandanti turchi ho distinto (mi sia permesso il dire) qualche stima sopra del mio sostegno. L’amministratione della giustitia verso loro stessi essercitata, nelle molte occasioni che nacquero di differenze insorte tra li sudditi dell’una et altra parte, et il repudio all’incontro di varie callunie che sono soliti d’innestare per coglier vantaggi, quando incontrano debollezza, furono i mezi per i quali concepirono un opinione favorabile al mio riguardo. La persona qualificata del prenominato Mustafà pasciombei, patrone della maggior parte della terra dovitiosa di Jannina della pertinenza tutta di Luro, et di buona parte dell’Arta per il merito de suoi auttori, tutti morti col titolo insigne di bascià di tre code, era uno de principali soggetti, che scorreva il vicinato, et il vaivonda dell’Arta era il secondo Turco d’auttorità. Con questi ho mantenuto sempre una finissima corrispondenza, regalandoli di volta in volta di qualche cosa ch’a loro riesce più grata.

Tale coltura ha potuto successivamente facilitarmi l’essecutione ai commandi dell’eccellentissimo signore provveditor general da mar sopra due copiosi tagli di roveri, olmi et frassini ne boschi de stessi Turchi, et ridotti a Corfù a pubblico beneficio. Il primo è caduto sopra quantità di travi, di tavole, di morali e di travatoli, tutti capaci ad uso di fabriche. Il secondo taglio seguì sopra trenta mille palli di rovere per l’occorrenze egualmente di Corfù, senza che il pubblico habbi rissentito altra spesa che il puro accordato con li mastri albanesi che s’impiegarono al taglio, al pulimento ed alla condotta a marina d’esso legname, et ciò pure con un avvantaggio sì grande che incontrò il pieno consenso et aggradimento dell’eccellentissimo provveditor general da mar suddetto. Le due publiche marcilliane furono destinate all’essecutione del transporto, et havevano di già esseguiti da vilti viaggi et pure ancora giace la maggior parte de suddetti palli dati in debito a quel monitioner nelle rive sotto la piazza di Prevesa, et se più bastimenti fossero stati impiegati all’opera stessa, si haverebbe potuto ricuperare anche quantità di stortame, tanto neccessario all’uso degl’arsenali di Vostra Serenità.

Non posso, poi, che con vivo ribrezzo del mio humilissimo rispetto accingermi a rappresentarLe il stato della piazza, resa hormai incapace di portar il titolo di piazza armata. Il recinto di terra e fascine, che la racchiudeva, s’è distrutto dalle stagioni vernose, di maniera che da cento parti mostra il seno aperto all’ingresso non di persone di mala inclinatione, ma alli animali che prendono il pascolo nella vicina campagna. Non vi è più un pallo della minima sussistenza dalla parte di terraferma, dove più cade il sospetto dell’aggressioni. Ѐ capitale che quei confinanti Margariti siino di genio più inclinato alle rapine et ai bottini che al desiderio di acquistar paese, peraltro niente di più facile sarebbe per riuscir loro, quanto la sorpresa di quella piazza che può dirsi campagna aperta. Ella è veramente fornita di vintisei pezzi di canonne di ferro di vario genere et di quattro perriere di bronzo. Eccedde questo armo al bisogno del ristretto recinto, ad ogni modo si rende inutile, perché li pezzi tutti indifferentemente sono collocati sopra la nuda terra, et può dirsi sepolti nel fango, pereversi infraciditi totalmente li letti sopra quali riposavano, et perciò inhabili ad alcun uso, né vi esiste in quei depositi numero uno di detti letti da risserva, cosicché da tutta quella artiglieria non si può nell’occasione esigere il benché minimo servitio. Pochi sono li quartieri, et questi in estrema neccessità di ristauro, in diffetto tale che minacciano assai vicino l’intiero precipitio. La publica habitatione, li corpi di guardia et l’hospitale furono da me accresciuti, et a sufficcienza riparati a misura del proprio potere. Io non ho mancato di portarne le più esate informationi dell’infelice sua positura alla carica primaria da mar, et in via di rispettosa protesta implorare alcun provisionale ristoro, a riparo del pericolo troppo evidente, ma non ho conseguito da quell’auttorità che il suo ossequiato compatimento.

Tale è la positura di quel recinto, degno del pietoso rifflesso di Vostre Eccellenze. Tre sono le compagnie che lo pressidiano, et queste composte d’ogni natura di gente, profuga dall’armata, stabilite sul piede degl’oltramarini. Erano in esse così frequenti le dissertioni, massime di notte tempo, che non si sappeva cosa più compromettersi dalla loro inconstanza. Tutti li fuggittivi si ricovravano nella Turchia, et specialmente nella terra d’Arta, et si gettavano sotto la prottettione del console di Francia, che ivi rissiede, per haver in seguito l’imbarco sopra li bastimenti di sua natione. Cercai d’impedire il dissordine, senza impegni et senza pubblico aggravio, et la coltura del suddetto ministro, resosi affettionato alle maniere cortesi con le quali l’ho trattato in occasione, che desiderò di visitarmi, col concorso di sua eccellenza provveditor general da mar ha contribuito molto all’intentione, et l’intelligenza tenuta col prenominato capitan Giorgo Connemeno, custode de Turchi, ha portato il vantaggio che son per rassegnare alla pubblica sapienza. Non ho havutta molta difficultà nel disponer il primo a rimettermi li desertori che si riducevano all’Arta sotto la sua prottettione, con l’impegno del perdono della vita e risserva d’ogn’altro castigo. Et il secondo faceva la funtione di guardar li passi, et di prender et rimettermi tutti quelli che calcavano la via di terra per passar nel paese ottomano. Et l’uno, et l’altro ha così ben assistito alla premura, che non hanno lasciato che più desiderassi dal loro affettuoso impegno. Più di trenta di colloro ne ha rimessi il console in tempi differenti al servitio, et molti egualmente ha ricondoti alla mia obbeddienza il motivato capitan Giorgo. La restitutione degl’uni et la presa degl’altri hanno prodotto un freno così grande alle militie di quelle parti, che non si contano più tanti scampi et così frequenti, come seguivano prima, con notabile pregiudicio di Vostra Serenità.

Manneggi non tanto leggeri, come sono occorsi in quel mio soggiorno, chiamavano in conseguenza qualche dispendio. Pure non si vedrà ne pubblici giornali alcun giro in bonificatione di spesa di tale né di qualunque altra natura, havendo io a ciò supplito col mezo delle mie scarse sostanze, né mi sono già pentito, poiché adempindo al mio dovere, ho potuto godere la consolatione di vedere promosso il miglior servitio della patria adorata.  

Sarebbe a mio carico rassegnarà pubblica cognitione il vero numero de soldati che compongono l’accenate tre compagnie, né io haverei trascurato questo obligo se non mi fussero mancati li fondamenti su i quali dovevo esseguir il progetto, Non so da che nasca il riguardo, per cui va priva delle copie de rolli la rappresentanza di Prevesa, et l’altra di Vonizza. Sdegnano rilasciarle li ministri camerali di Santa maura, la di cui carica estraordinaria ha la sopraintendenza delle suddette piazze, et pare sii per riuscire a discapito della di lei dignità il concederle a’ rappresentanti.Pure l’esempio di tante altre cariche sostenute dalla mia rassegnata obbedienza sotto la giurisdizione di provveditori di provincia et provveditori estraordinari mi rese sufficientemente ammaestrato non esservi rappresentante in piazze armate, che non habbi nel suo ufficio le copue de rolli di tutte le militie et serventi per la neccessità non solo di saper il numero delle genti pagate, ma per quella anco delle mensuali rassegne, onde li capi delle compagnie non s’arroghino la libertà troppo familiare di tenir in vita e morti e falliti con tanto pubblico discapito. Nonostante queste ragioni, non vi si trovò luoco alla remotion del disordine, anzi continuando nella sua specie, resta in arbitrio et nella conscienza de capitanii l’uso della pontualità e della frode, tanto più che una o due volte all’anno solamente vengono praticate le rassegne dalla carica estraordinaria e dalla primaria da mar in occasione di visita.

Anche li pubblici capitali vengono estratti dai depositi et dispensati senza che quel rappresentante ne habbi alcuna notitia. Il libro bollato del monitioner et li mandati in stampa per li ordinnarii dispensi, vengono egualmente tenuti nella camera di Santa maura et dopo consumati li depositi stessi, passa il monitioner due o tre volte all’anno a quella parte a levar li mandati et formar le sue cautioni. Ho creduto cura particolar della mia inspettione far cader sotto li sapientissimi rifflessi dell’Eccellenze Vostre il disordine, come materia contrariante all’intentione pubblica pregiudiciale al suo interresse et perciò degna del più maturo compenso.

Io ho impiegato il mio pocco spirito in quella molesta confinatione, tutto all’idea di togliere li disturbi al pubblico d’acquistare la quiete a quei poveri sudditi, tener ben affetti li commandanti turchi, mantener la reputation dell’armi et preservar il dominio di Vostra Serenità sopra quella importante situatione. Ogni cosa m’è riuscito mediante la divina assistenza, et col benigno gradimento dell’eccellentissimo signore provveditor general da mar, da cui dipende ogni mia attione, et molto più haverei potuto contribuire se una grave malatia sofferta non mi havesse ridotto in stato di morte, che poi per sette mesi continui mi obligò guardar il letto, senza altra speranza di vita che la sola con cui confidavo nella misericordia dell’omnipotente Iddio che compassionando il mio povero stato et la disgratia della famiglia, m’ha concesso la pristina salute. Nonostante questa agittatione ben lunga, non perdei di vista l’interresse pubblico in ciò riguarda li pochi datii di quella parte. La decima de grani, il datio del pascolo et l’appalto dell’aqua di vita sono di tenue rendita, ma che sempre ho havutto la sorte d’affittarli con maggior vantaggio dell’antecedenti condotte et verso persone di pontualità, che supplirono con effettivi sforzi al loro importare. Il datio delle peschiere et quello della doana sono di molta maggiore importnaza et, perciò, risservate le deliberationi alla carica estraordinaria di Santa Maura. La doana, però, va declinando per certo disordine occorso in dettrimento delle ragioni pubbliche. La materia che non fu di mia particolar inspettione, mi leva pur l’adito d’internarmi nell’esprimer delle cause che vi produssero il discapito; caderanno a pubblica cognitione per mezo di quel’auttorità vhe vi assunse il maneggio dell’affare.

La qualità de sudditi, tutti usciti dalla suddittanza ottomana, non può esser più rassegnata al nome venerabile di Vostra Serenita, ed il trattarli con paterna predilettione, giusto ai pubblici pietosissimi instituti, accresce in loro il desiderio di sussistere, nonché d’augmentarsi, purché gli si continui la coltura soave di cui già ne hanno assaggiate le prove, et come ben lo promette la prudenza et zelo del successore.

Credo d’haver debolmente supplito, anco con troppo disturbo di Vostre Eccellenze, all’obligo che mi constituisce la legge. Accolgano generosamente, a titolo di puro zelo, quanto espone un rassegnatissimo cuore, et attribuindo al solo desiderio ch’ho sempre nutrito per il miglior pubblico servitio, anco ne tempi decorsi, ne quali ho soggiacciuto alla schiavitù, ricevino pure queste recenti prove d’ossequio in testimonio sempre maggior della mia humilissima rassegnatione, implorando dalla Loro magnanima grandezza quel benigno compatimento che sono soliti di concedere alla buona volontà de più divoti cittadini, giacché ho la sorte, dopo tanti impieghi che mi furono donnati dalla serenissima patria, di presentarmi anco per questa volta al trono augusto di Vostra Serenità. Gratie.

Venetia li 11 dicembre 1727

Pier’Antonio Bembo